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Il Movimento 5 Stelle crolla, processo a Giuseppe Conte. La tentazione è rompere con il governo Draghi

Pietro De Leo
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C'è chi, come Dino Giarrusso, parlamentare uscito dal Movimento 5 Stelle fra mille polemiche, forte del sostegno dato a Messina al candidato vincente Basile chiama i «delusi» dal ciclo contiano: «Vengano con me». Il primo turno delle amministrative segna un'ordalia sofferente, per il fu Avvocato del popolo, reinventatosi leader. Una prova, questa, da cui non può sfuggire. Se nella tornata di Comunali del 2021 la responsabilità politica diretta era in parte eludibile perché la conquista della leadership era avvenuta da poco, ora non si può. C'è dentro con tutte le scarpe. Affondando in un'aritmetica infelice. A Palermo, dove aveva svolto una campagna elettorale carnale e piena di pathos, rivendicando la bandiera del reddito di cittadinanza, a ieri sera il Movimento 5 Stelle era accreditato al 7,6%, da primo partito che era, con oltre il 17, nel 2017. A Messina il 3%. A Taranto il 4%. A L'Aquila i primi scrutini non danno nemmeno l'1%. «La nostra posizione è chiara, è una traiettoria limpida e ragionata che non cambia nulla rispetto all'esito delle elezioni», ha detto Conte, che poi ha definito «condizione non valicabile» il «campo progressista». E però c'è chi, nel Pd, già si comincia a interrogare se valga la pena insistere nell'alleanza con il Movimento e non sia meglio allacciare un dialogo con le forze di centro che, in questa tornata, si sono dimostrate ben più competitive.

 

 

È il caso, ad esempio, del senatore Andrea Marcucci: «Il Pd per competere deve avviare un dialogo con Azione, Italia Viva e i civici». Insomma, il tema c'è, specie considerando le ragioni di distinguo, vedere al capitolo dossier internazionale, che nelle ultime settimane hanno spesso separato il Pd dal Movimento 5 Stelle. E ora, la leadership di Conte appare sempre più assediata. C'è la spada di Damocle del nuovo ricorso presso il Tribunale di Napoli, su cui una decisione sarebbe dovuta giungere nei giorni scorsi ma che il giudice ha deciso di trattenere. E proprio sul tema della zavorra di carte bollate che riguarda i ricorsi, Conte ha affermato: «Chiaramente e oggettivamente ha rallentato il nostro percorso per radicarsi sul territorio». C'è la porzione di dissidenza interna, che fa capo a Luigi Di Maio con cui negli ultimi mesi la muscolarità è stata evidente, che registra questa debacle. E c'è il rapporto con il governo: «Dobbiamo continuare a batterci in modo chiaro, esprimere bene le nostre posizioni, chiarire bene i nostri obiettivi- dice Conte-cercando di essere ascoltati dal governo, dialogando con il governo sulla base di principi elementari di una democrazia parlamentare».

 

 

Mozione apparentemente pacifica. Se non fosse che da più parti, nell'inner circle dei parlamentari fedelissimi, comincia a farsi largo un'idea, per ricostruire l'identità e provare a recuperare consensi, ossia rompere con l'esperienza dell'esecutivo Draghi, che Conte, suo predecessore, aveva maldigerito sin dall'inizio. Gli appuntamenti cerchiati di rosso sono svariati. C'è il 21 giugno, con la risoluzione sulla politica estera. Ma ve n'è un altro prima, giovedì, quando comincerà la partita degli emendamenti del Dl Aiuti, previa indicazione dei «segnalati». E il M5S ne ha depositato uno che potrebbe segnare una sorta di deflagrazione sia nei rapporti con il Pd che con il resto della maggioranza, e di fatto bloccherebbe la realizzazione del termovalorizzatore a Roma.

 

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