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Partiti nella palude del Colle. Guerra di trincea per l'elezione del presidente

Pietro De Leo
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Tutto balcanizzato, frammentato, liquido. Il quadro politico che si avvicina al voto per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica presenta un affanno figlio di una legislatura stressata già da un esito elettorale non netto nel 2018, e squassata dal Covid. Tre governi in tre anni, con tre maggioranze diverse. Partiti che hanno osservato cambi in corsa impensabili, sorgenze di dissidi interni. Partendo da questo, e applicando uno schema di divisione per poli, è facile scattare la fotografia. Il Movimento 5 Stelle è forse il partito che paga più di tutti le deviazioni degli ultimi anni, trovandosi dissanguato dalle defezioni, con una leadership in «conto terzi», quella di Giuseppe Conte, che non riesce a catalizzare il pieno riconoscimento e l’appoggio dei gruppi parlamentari (la sortita di quello del Senato sul Mattarella bis al Quirinale quando il prof ex premier aveva avanzato la preferenza per una donna ne è la dimostrazione più plastica).

 

Non va meglio al Pd, dove il solco tra il segretario Enrico Letta e la corrente di «Base riformista», che raccoglie quanti condivisero l’esperienza renziana, è assai evidente in queste settimane. E la sinistra ancora più a sinistra? Anche qui, sono dolori. L’uscita di Massimo D’Alema di dura critica alla fase renziana di guida del Pd, paragonata a una «malattia», ha suscitato lo sdegno dell’attuale leader dem, rallentato la rotta di riavvicinamento dei fuoriusciti di Articolo 1 al Nazareno e, soprattutto, posto una mina sul progetto di «campo largo» su cui Letta lavora per riunire le forze alternative al centrodestra. Quest’ultimo, neanche, è immune dalle spinte disgregatorie che aleggiano nella politica. C’è concordia, almeno alla vigilia, sul nome di Silvio Berlusconi per il Quirinale.

 

Ma la sensazione è quello di una pace armata come, purtroppo, si verifica oramai dal 2018. I nodi del confronto tra forze politiche non sono stati sciolti dopo la rovinosa tornata della Amministrative, in cui il blocco dei moderati e degli identitari non è riuscito a conquistare Roma, ha malamente perduto a Milano già al primo turno, idem a Napoli, e ha mancato l’appuntamento a Torino. Nel mezzo c’è il centro. Magma di alto potenziale, ma dalla progettualità non ben definita e con troppi leader che mirano a riconquistare un elettorato scappato nell’astensionismo ma ovviamente sono in attesa della definizione del quadro politico con un eventuale cambio di legge elettorale (rimarrà uno schema maggioritario, funzionale al bipolarismo, o si andrà verso un proporzionale puro?).

 

Altro tema, e di non poco conto, maggioranza e governo. Le ultime fasi dell’attività legislativa, dalla manovra economica all’ultimo decreto sulle limitazioni, hanno fatto emergere tre tipi di conflittualità. Quello tra forze politiche della maggioranza di unità nazionale, quello tra forze politiche ed Esecutivo, e quello tra ministri all’interno del governo. Con un Mario Draghi che vede il suo effetto-collante, granitico nei primi mesi di un mandato accompagnato da entusiasmo internazionale e fiducia popolare, provato dai fatti e dalle difficoltà. A far da incastro a tutto questo, c’è il ruolo del Parlamento.

 

Messo all’angolo dai tempi del Conte 2 e dal dilagare dei Dpcm con cui affrontare l’emergenza, non ha ancora riacquistato centralità. In uno scenario così sfilacciato, è ben difficile credere che la quadra sul prossimo Capo dello Stato sia la panacea di tutti i mali. 
 

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