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Letta già si vede successore di Draghi. Ma la sua illusione è smentita dalla storia

Riccardo Mazzoni
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In una delle conferenze stampa più lunghe della storia, dopo aver vinto le suppletive di Siena Enrico Letta ha caricato di una fortissima valenza politica le elezioni amministrative che hanno premiato il suo partito, senza neppure attendere l’esito dei ballottaggi di Roma, Torino e Trieste. Una lettura eccessivamente ottimistica che non tiene conto né degli umori che covano dietro lo tsunami astensionista, né della consolidata tradizione per cui, tranne negli anni della sbornia grillina, ha sempre visto la sinistra favorita nel voto delle grandi città. Il finora grigissimo segretario del Pd, insomma, abbandonata d’improvviso ogni prudenza, ha fissato alcuni punti fermi, uno solo dei quali però veramente plausibile, ossia quello per cui, dopo il bagno di sangue elettorale grillino, spetterà a lui, e non più a Conte, fungere da federatore del centrosinistra allargato a un Movimento ridotto a cespuglio. Su questo non ci piove, perché lo certificano i nuovi rapporti di forza.

 

Ma su tutto il resto Letta rischia di restare vittima di una pericolosa illusione ottica e di andare così incontro a parecchie delusioni, perché dà per scontato ciò che scontato non è affatto, a partire dall’autoinvestitura a successore di Draghi a Palazzo Chigi nel 2023. Nella liquidissima politica di questi tempi, che divora leader e consensi con la voracità di uno squalo, infatti, un anno e mezzo è poco meno di un’era geologica, e in mezzo inoltre c’è da scalare il Mont Ventoux del Quirinale, una partita cruciale se il centrodestra saprà giocare avvedutamente le sue carte. Ma la scommessa più azzardata, nel ragionamento lettiano, è quella di considerare terminata la traversata nel deserto, pensando davvero che la sinistra sia tornata ovunque «in sintonia col Paese» e in grado di vincere e governare «se allarghiamo il perimetro della coalizione». È qui che casca l’asino, come dovrebbero insegnare allo smemorato di Pisa le fallimentari stagioni prima dell’Ulivo, poi del centrosinistra col trattino copyright Cossiga-D’Alema e infine dell’Unione, tutte coalizioni, appunto, allargate surrettiziamente per poi naufragare dopo breve navigazione. Ebbene, il percorso politico enunciato da Letta sull’onda dell’euforia elettorale non si discosta per nulla da quei canovacci, riproponendo le stesse, contraddittorie parole d’ordine: una coalizione moderna ma anche radicale, che tenga insieme diritti sociali e civili (ius soli e voto ai sedicenni, si suppone) e «in grado di rientrare in regole di bilancio più severe operando anche scelte complicate e garantendo continuità alle politiche di Draghi».

 

Letta affida alla sua fragile leadership una missione immane, da compiere imbarcando quel che resta del grillismo, Bersani, Fratoianni, Renzi, Calenda e Bonino, riformisti e massimalisti, statalisti e neoliberali, giustizialisti e garantisti, europeisti e filocinesi, difensori e nemici giurati del reddito di cittadinanza: insomma, un improbabile melting-pot politico che costituirebbe una seria minaccia non solo per le riforme del Pnrr, ma per il futuro stesso del Paese. Perché il teorema secondo cui le diverse anime della sinistra possono coesistere è già stato smentito dalla storia e dalla geografia politica: possono farlo all’opposizione, dove è sufficiente mettere insieme un cartello elettorale per demonizzare l’avversario di turno, ma alla prova dei fatti non sono mai stati in grado di governare. E se la suggestione fosse quella di mettere insieme la cosiddetta maggioranza Ursula - fortunatamente un’ipotesi dell’irrealtà - lo scenario diventerebbe ancora più confuso e peggiore. L’ultima, recentissima esperienza della sinistra al potere, l’alleanza rossogialla, basta da sola a prefigurare disastri: un governo debole, diviso e incerto, che neanche nell’emergenza Covid riuscì a trovare una comune ragion d’essere delegando sistematicamente decisioni e responsabilità a comitati scientifici, task-force, commissioni, esperti.

 

La fase uno si consumò politicamente tra i penultimatum di Renzi, l’implosione dei Cinque Stelle, i malumori del Pd e le difese d’ufficio di ministri improponibili, con un premier incapace di mediare e intento solo a fare propaganda a sé stesso. Il Conte due nato dalle ceneri del Papeete trovò nell’emergenza pandemica l’acqua insperata su cui galleggiare, ma la sua endemica precarietà aveva portato l’Italia su un binario morto: un governo intriso di statalismo e di pregiudizio anti-impresa, con l’unica strategia dei sussidi a pioggia (un metadone anticamera del reddito universale che tuttora riemerge carsicamente dalla testa di Grillo, il convitato di pietra del trio Letta-Conte-Bettini). E, last but not least, l’avvio imbarazzante della campagna vaccinale stava per pregiudicare lotta al virus e ripresa economica, con un Recovery Plan abborracciato in cui mancavano coperture per quasi 5 miliardi, con il capolavoro di un governo che era riuscito a sforare i conti anche con i soldi non suoi. Ultimo promemoria, a questo proposito: al Mef in quei tempi oscuri comandava Gualtieri, il candidato sindaco di Letta al ballottaggio con Michetti per il Campidoglio.

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