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Si vota, torna la caccia al fascista. Da Durigon a Bernardo, la sinistra rispolvera il manganello rosso

Carlantonio Solimene
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Il primo tentativo era stato il Ddl Zan. Ma alla fine l’argomento non scaldava i cuori più di tanto. Poi era stato il turno dello Ius Soli. Ma tra le fila grilline subito erano arrivati i distinguo. Allora la scelta era caduta sull’etichetta «no-vax». Ma le immunizzazioni di Salvini e Meloni avevano spento la polemica sul nascere.

E allora, a sinistra, per ricompattare partiti ed elettorato alla vigilia delle amministrative, si è ripescato un evergreen della demonizzazione dell’avversario: il pericolo fascista. Quale occasione migliore di un voto che cade grosso modo nel centenario della fondazione del Partito Nazionale Fascista per suonare l’ennesima chiamata alle armi contro i nostalgici neri?

 

L’occasione - d’oro - l’ha fornita improvvida uscita del sottosegretario leghista Claudio Durigon sull’eventualità di reintolare il parco Falcone-Borsellino di Latina ad Arnaldo Mussolini, come si chiamava un tempo. Un infortunio sul quale il fedelissimo di Salvini ha provato a ritrattare, ma ormai era troppo tardi. Sono partite raccolte firme, le mobilitazioni della solita intellighenzia, il pressing dell’Anpi, le intemerate di Letta. Così, alla fine, davvero Durigon potrebbe cedere al passo indietro, specie dopo le parole di Salvini pronto a «valutare con il sottosegretario cosa fare per il bene suo, del governo e del Paese».

 

Ma, c’è da scommetterlo, le eventuali dimissioni non saranno sufficienti ad archiviare la questione. Perché c’è da ricompattare una coalizione che, mai come questa volta, si presenta lacerata alle amministrative. Divisa a Roma tra tre candidati (Gualtieri, Calenda e Raggi) così come a Napoli (Manfredi, Bassolino e Clemente) o in Calabria (Bruni, Oliverio e De Magistris), la sinistra ha deciso di agitare l’unico tema che davvero unisce una compagine così variegata: il manganello antifascista.

Ne ha fatto le spese anche il candidato del centrodestra a Milano, il pediatra Luca Bernardo. Persona moderata (la sua campagna elettorale è cominciata col riconoscimento del lavoro del sindaco uscente, Giuseppe Sala), inchiodata però a una dichiarazione: «Non distinguo le persone tra fasciste e antifasciste, ma solo in base all’esperienza e la competenza». Sala, in virtù di queste parole, l’ha definito «indegno di guidare la nostra città», lui ha replicato denunciando una «polemica montata ad arte». Per chiosare, la Giunta del sindaco ha esteso il campo di applicazione della «patente antifascista» - una dichiarazione di rispetto dei valori della Costituzione repubblicana - diventata obbligatorio anche per le associazioni che vogliano gestire immobili a lungo termine, e non più solo per concessioni temporanee di spazi.

Nel frattempo, un’altra serie di grandi e piccoli episodi simili andava costellando le cronache. A Bologna suonava la rivolta contro l’invito alla Festa dell’Unità del deputato di FdI Galeazzo Bignami, ancora inchiodato a un goliardico travestimento da nazista al suo addio al celibato, una quindicina di anni fa. Il ministro Franceschini finiva nella bufera per aver nominato alla direzione dell’Archivio di Stato Andrea De Pasquale, colpevole di aver definito «statista» Pino Rauti. E dal Pd si dimetteva persino un senatore, Dario Stefano, per protestare contro l’endorsement del governatore pugliese Michele Miliano a Pippi Mellone, sindaco di Nardò vicino a CasaPound.

Mobilitarsi oggi per raccogliere i frutti domani. Se, come prevedibile, nelle città più importanti al voto si andrà al ballottaggio tra il candidato del centrodestra e il «vincente» dello sprint a sinistra, occorrerà rimettere insieme i cocci che erano divisi al primo turno. E, archiviato l’antiberlusconismo, c’è bisogno di un’altra bandiera identitaria condivisa. «Occhio che qui vincono i fascisti». Finito un anti, se ne fa un altro.
 

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