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L'Italia resta appesa a un Pd spappolato

La scontro Renzi-Zingaretti sull'alleanza coi Cinquestelle decide la legislatura. Ma in ogni caso i Democratici ne usciranno sfasciati

Carlantonio Solimene
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Cosa sta succedendo e succederà nel Partito democratico? Inevitabilmente il fulcro della crisi di governo, dopo l'intervista in cui Matteo Renzi ha sorprendentemente aperto a un esecutivo di scopo con i Cinquestelle, si è spostato al Nazareno. Anche perché com'era lecito aspettarsi, non ha tardato ad arrivare la puntualizzazione del segretario Nicola Zingaretti, che ha subito detto no all'intesa, non fosse altro perché dire sì avrebbe significato ammettere che a comandare, in casa sua, è ancora il proprietario precedente. Il no di Zingaretti pone fine alla vicenda? Questo non si può ancora dire. Per due motivi. Il primo è che una cosa è dire di no a Renzi, un'altra sarebbe opporre un rifiuto se una richiesta simile arrivasse dal presidente della Repubblica. Se, insomma, non si trattasse di un governo con gli arcinemici grillini, ma di un esecutivo istituzionale nato sull'onda dell'emergenza spread e della necessità di arginare l'aumento delle aliquote Iva, se Mattarella facesse appello al senso di responsabilità di tutti per tutelare i risparmi degli italiani, allora per il segretario Dem diventerebbe più difficile mantenere la parola data - più o meno esplicitamente - a Matteo Salvini. Il secondo motivo sta nella caratterizzazione dei gruppi parlamentari del Pd, che come ormai tutti sanno a memoria sono in gran parte composti da renziani. Perché fu l'ex segretario a comporre le liste alla vigilia delle Politiche dell'anno scorso. Ma quanto pesano, con precisione, i renziani? Una stima precisa è impossibile, perché gli spostamenti da una corrente all'altra sono continui. Si può ipotizzare, però, che l'ex premier controlli ancora il 70% dei senatori e il 60% dei deputati. Senza contare che a seguirlo, in questa svolta, potrebbero essere anche i parlamentari vicini a Dario Franceschini. Il "potere" di Renzi è stato già riscontrato una settimana fa, quando in Senato si dovevano votare le mozioni sulla Tav. Zingaretti voleva che il gruppo Pd si astenesse, il capogruppo Andrea Marcucci (renziano) ha spinto invece per la partecipazione al voto. Avendola vinta. In ogni caso alle consultazioni con Mattarella si recherà il segretario del partito. Quindi Zingaretti, se non fosse convinto, avrebbe la possibilità di sabotare l'intesa in qualsiasi momento. Archiviato il destino del governo, ci sarebbe poi da interrogarsi su quello dello stesso Pd. Anche se, in questo caso, la soluzione dell'enigma sembra molto più semplice. Se Zingaretti dovesse averla vinta, di fatto i renziani sarebbero fuori dalle liste alle elezioni e di conseguenza fuori dal partito. Anche se l'ex premier non avrebbe il tempo necessario a creare una creatura tutta sua. Se, al contrario, la legislatura non terminasse, Renzi avrebbe più tempo per il suo piano ma l'epilogo sarebbe lo stesso. Addio alla "Ditta" per creare un suo partito personale. E forse sarebbe anche l'ora: dalla "non vittoria" di Bersani nel 2013 al Nazareno sono volati i coltelli di continuo. Il partito sponsorizzato dai suoi stessi esponenti come l'"architrave" dell'equilibrio istituzionale in Italia, non ha fatto altro invece che traballare. E' forse giunto il momento che cada.

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