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L'unico campo largo vincente è il non voto. Inutile l'esultanza di Enrico Letta

Riccardo Mazzoni
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I numeri in certi casi si pesano e non si contano, ed è quanto accaduto successo dopo i ballottaggi di domenica, generalmente descritti come una cavalcata trionfale del Pd a partire dalla vittoria nella città simbolo di Verona, feudo che il centrodestra ha consegnato alla sinistra dilaniandosi in un'assurda guerra fratricida. Poi ci sono Piacenza, l'ingrata Monza, Parma, Alessandria, Carrara per finire a Catanzaro, Comune che per la modalità della sconfitta può essere definito come la Verona del Sud. Ma chi vede in queste amministrative un premio alla strategia del campo largo - come sta facendo lo stato maggiore del Nazareno-rischia di prendere un enorme abbaglio, perché l'unico vero campo largo è stato quello dell'astensione, un fenomeno ormai strutturale che, rapportato ai ballottaggi, favorisce da sempre il centrosinistra. La coalizione tra Pd e Cinque Stelle ha vinto a Lodi, Padova, Taranto, Alessandria e Catanzaro, ma l'apporto grillino è stato ovunque irrisorio, ondeggiando tra l'1,3% e il 4,2%, percentuali da cespuglio che proiettano una lunga ombra sulla convenienza che avrà il Pd di regalare collegi a un alleato che vale meno di Calenda. Il quale peraltro - determinante ad Alessandria - ha confermato di voler correre da solo. Per cui leggere il voto di domenica come un viatico alla strategia neoulivista di Letta appare quantomeno azzardato, anche perché nei Comuni al voto il centrosinistra partiva dalla tornata disastrosa del 2017 (dei 26 capoluoghi, a parte i quattro commissariati, 16 erano amministrati dal centrodestra, 4 dal centrosinistra e 2 da coalizioni civiche).

 

 

Era difficile, insomma, fare peggio. Eppure, se i numeri hanno ancora un valore, e si fa un bilancio elettorale più accurato, si scopre che il centrodestra ha vinto in tre Comuni capoluogo di regione su 4 e in 15 Comuni capoluogo di provincia su 26. Non solo: nei Comuni al di sopra dei 15mila abitanti il centrodestra ha vinto 58 sindaci (ne aveva 54), mentre il centrosinistra ne aveva 48 e ne ha vinti 38, subendo un'autentica Caporetto nel Lazio di Zingaretti. Senza dimenticare che il centrodestra aveva vinto al primo turno le sfide cruciali di Palermo, Genova e L'Aquila e ha strappato alla sinistra Belluno e Lucca. Però, enunciati i numeri reali del voto, emesse in filale difficoltà di un turno elettorale in cui - partendo da una situazione di netto vantaggio - c'era oggettivamente tutto da perdere, il centrodestra ha comunque il dovere di scrutare il bicchiere mezzo vuoto, perché se non è stato un disastro, troppe cose non hanno funzionato, e vanno chiamati direttamente in causa i vertici della coalizione, che da troppo tempo stanno trascurando i fondamentali. Alla sgradevole attitudine per i dissidi a bassa intensità ma perenni, si è aggiunta l'incapacità di gestire le faide locali che, derubricate a eccezioni ininfluenti sulla tenuta dell'alleanza, rischiano invece di minarla alla base.

 

 

Le leadership nazionali si misurano anche su questo terreno, e invece liti e rinvii da un anno a questa parte hanno partorito candidature tanto in extremis quanto improbabili come Michetti a Roma e Bernardo a Milano, anticipatorie dei suicidi politici di Verona, Catanzaro e Parma. Non c'è da sorprendersi poi se anche gli elettori più fedeli alla fine preferiscono disertare le urne, ed è quasi stucchevole ogni volta che scatta l'allarme invocare vertici che non risolvono mai nulla. Tanto per dire, lo stesso incendio di Verona sta già divampando in Sicilia e in Lombardia, dove i governatori uscenti sono nel mirino del fuoco amico e le schermaglie in atto non promettono nulla di buono. Ieri, nei commenti dei ballottaggi, si sono visti in azione più incendiari che pompieri, ma senza un federatore come Berlusconi, in grado di anteporre l'interesse generale a quello di partito, c'è il rischio di disperdere il patrimonio maggioritario di consensi che i sondaggi continuano ad assegnare al centro destra. Sarebbe l'ultimo, imperdonabile autodafè.

 

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