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Da Roma una speranza in più contro il Covid: ecco il super vaccino

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Antonio Sbraga
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La ricerca sui vaccini anti-Covid potrebbe ricevere nuova "linfa" puntando proprio sui linfociti. Con una innovativa tecnologia, studiata e realizzata interamente in Italia, a prova delle potenziali varianti. E stavolta con un ruolo diretto dello Stato, perché il progetto è portato avanti dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss). Dal quale, con tutte le cautele proprie del mondo della ricerca, tengono però a precisare che la «sperimentazione clinica di un potenziale modello di vaccino di lunga copertura contro SARS-Cov2 - scrive l'Iss - è attualmente in fase di studio preclinico, su modelli animali, e tale fase non è stata ancora completata». Dovrebbero servire ancora due o tre mesi, nel corso dei quali si potrebbero, però, già effettuare anche gli studi sull'uomo, per cercare di arrivare ai primi risultati entro la fine dell'anno. Questo è almeno l'auspicio dell'Iss che, «nel riconoscere il potenziale della ricerca, ha supportato sistematicamente le richieste di finanziamento necessarie al suo sviluppo e ha reputato opportuno, inoltre, proteggerla depositando un'ulteriore domanda di brevetto per garantirne eventualmente un uso finalizzato alla tutela della salute pubblica». Anche perché la ricerca è già stata presentata sulla rivista scientifica internazionale "Vaccines" con un articolo scientifico firmato da Maurizio Federico, direttore del "Centro Nazionale per la Salute Globale" dell'Iss, insieme ad altri autori sempre appartenenti all'Istituto di Viale Regina Elena.

 

 

Nell'articolo si descrivono esperimenti condotti sui topi che hanno dimostrato la immunogenicità del vaccino, basato su una tecnologia innovativa creata e sviluppata dall'Iss, mediante l'inoculo di corte molecole di Dna. «La tecnologia del vaccino ISS, attualmente allo studio, è basata sull'attivazione dell'immunità indotta dalle cellule CD8 T, è originale rispetto alle altre in uso e se ne stanno studiando ulteriori possibili sviluppi», spiega l'Istituto. A differenza di tutti gli altri vaccini somministrati finora, infatti, il modello allo studio dell'Iss non punta a generare nuovi anticorpi contro il Covid. Ma tende a far attivare direttamente l'immunità indotta dai linfociti. Ossia quel tipo di cellule che fanno parte del sistema immunitario adattativo e, quindi, in grado di generare e modificare gli anticorpi per far riconoscere gli antigeni del Covid. Come? Cercando di infarcire le vescicole rilasciate dalle cellule, rimpinguandole con le 4 diverse proteine del Covid. Con un vaccino di questo tipo, basato essenzialmente sulla generazione di vescicole extracellulari ingegnerizzate con i 4 antigeni SARS-CoV-2, si potrebbe favorire anche una certa resistenza alle svariate mutazioni del Coronavirus. «La possibile lunga durata della copertura vaccinale ovviamente non è ancora supportata da evidenze scientifiche ma si basa su dati di letteratura e nel corso dello sviluppo. La fase attuale - conclude l'Iss - non permette di fare una stima quantitativa dell'efficacia e dell'effettiva durata della copertura vaccinale». 

 

 

Proprio negli stessi mesi in cui studiava il potenziale vaccino anti-Covid, l'autore della ricerca, Maurizio Federico, ha vissuto il dramma della morte di sua figlia Elisabetta, «venuta a mancare il 3 novembre a seguito di una cattiva infusione di midollo osseo, forzatamente effettuata per rispetto dei protocolli», come ha scritto il ricercatore nella petizione telematica finora sottoscritta da ben 84.626 persone. Una petizione inviata «al Ministro della Salute, Roberto Speranza, per chiedere di dar corso ai dovuti approfondimenti affinché si modifichi il protocollo vigente e non si abbia a ripetere una tragedia come quella che ha colpito la nostra amata Lisa». La quale, a soli 17 anni, «ha vissuto un calvario, con l'epilogo tragico della morte, avvenuto perché non è prevista una alternativa nel caso la donazione avesse problemi quantitativi/qualitativi». Perché, come spiega nella petizione il dottor Federico, «nei giorni precedenti la trasfusione il paziente riceve la chemioterapia finalizzata a ridurre le possibilità di rigetto, ma ciò lo pone nella condizione di non poter rimanere per troppo tempo senza l'infusione del materiale del donatore, che gli viene quindi - secondo il protocollo - praticata, a prescindere dalla sua qualità». Come, purtroppo, nel caso della sua Lisa: «il midollo pervenuto risultava insufficiente (qualitativamente e quantitativamente) a giudizio dei medici stessi», scrive Federico. Che con la petizione ha chiesto al Ministero: «è possibile che non esista un piano B nel caso il materiale donato si riveli non adatto? Ebbene no, oggi non esiste».

Secondo i tantissimi firmatari, invece, dovrebbe essere subito creato, almeno per tutti i casi «riferibili a trapianti di midollo osseo». Questi nuovi protocolli, infatti, «dovrebbero prevedere un piano B che potrebbe semplicemente consistere nell'allertare un donatore alternativo, al quale chiedere un pronto aiuto in caso di fallimento della prima donazione». Evitando un epilogo tragico come quello del novembre scorso, quando «l'emolisi devastante è poi avvenuta, il cuore di Lisa già solo dopo 4 giorni risultato dalle analisi gravemente danneggiato, e l'ovviamente manca to attecchimento del trapianto ha fatto il resto», come ha raccontato in un drammatico post su Facebook Maurizio Federico. E dire che tutto era iniziato una sera d'estate, quando la ragazza era tornata «a casa con uno smisurato livido su una coscia come frutto di una caduta da un monopattino elettrico apparentemente non così catastrofica, come suggerito dall'assenza di graffi». Con il primo campanello d'allarme scattato dopo l'esito di un emocromo, «dal quale risulteranno livelli troppo bassi di piastrine, 10.000-15.000 per microlitro, quando le persone sane ne hanno al minimo 100-150.000. Era metà di giugno 2020». Ma alla fine del calvario «la minaccia che ucciderà Lisa, tanto mortale quanto prevedibile - ha aggiunto Federico - è stata l'infezione batterica». E dopo mesi di ricovero restano le «domande senza risposta» di un padre -ricercatore: «Perché non sono stati tentati approcci terapeutici di prima linea di per sé non invasivi? Perché per salvare vite non si prevede un piano B in caso di donazione di midollo non adeguata? E perché non si è proceduto in via preventiva a contrastare l'azione del batterio killer Pseudomonas con il trattamento con adeguati antibiotici ed infusioni di granulociti?». 

 

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