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Salvini aveva citofonato ad un vero spacciatore: il giudice sbugiarda la sinistra

Christian Campigli
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No, non erano dei poveri immigrati vessati da Matteo Salvini. Degli onesti lavoratori disturbati al citofono, mentre cenavano. Colpevoli solo di essere nati in Tunisia e di vivere in un quartiere popolare di Bologna. Al contrario, si trattava, tanto per cambiare, di un clamoroso scivolone della sinistra che, durante la campagna elettorale per le regionali dell'Emilia Romagna del 2020, aveva cercato di mettere in croce il leader della Lega per l'arcinota scampanellata con la domanda «Scusi, lei spaccia?». Quel quesito, oggi, ha una risposta ufficiale. Messa nero su bianco da un giudice: sì, quella famiglia spacciava. Anzi, faceva parte di un'organizzazione piramidale gestita insieme a degli italiani. «Quello che avviene al Pilastro è paragonabile a un mercato a concorrenza perfetta: è facile entrare nel mercato perché le condizioni lo favoriscono e non vi sono neppure particolari conflitti, almeno nel momento in cui si svolge l’indagine, tra i soggetti che spacciano». Quattrocento pagine, quelle redatte dal gup Sandro Pecorella, nelle quali si elencano le motivazioni della sentenza che hanno portato a 21 condanne (per un totale di oltre 83 anni in primo grado) per la vendita di hashish e cocaina. Coinvolta, appunto, anche la famiglia tunisina alla quale citofonò l'ex Ministro degli Interni.

 

 

Ma il documento prodotto dal magistrato emiliano delinea, con estrema precisione, le molteplici dinamiche del mercato della droga al Pilastro. «Un quartiere in cui molteplici soggetti, spesso uniti da vincoli familiari, svolgono attività di spaccio in modo capillare e diffuso inducendo i residenti a sopportare una situazione di degrado e di illegalità diffusa». Le indagini hanno stabilito che Karmi Salah Eddine, condannato a 14 anni e 7 mesi, «è l’organizzatore attivo, l'uomo che gestiva in prima persona tutte le fasi dell’attività di narcotraffico». Di assoluto rilievo anche i compiti svolti da Anna Maria Arena (condannata a 8 anni e dieci mesi) e la figlia, Elisa Rinaldi (per lei la pena è 4 anni e 8 mesi) perché entrambe «sono partecipi del sodalizio fornendo un costante contribuito causale alla sua vita, al suo sviluppo e alla sua preservazione». Mamma e figlia si «occupavano in prima persona dell’effettuazione di consegne e partecipavano in maniera sistematica all’attività di riscossione dei crediti derivanti dal narcotraffico».

 

 

Da non sottovalutare il ruolo di Mustafaj Oert. «La sua figura è rilevante e di significativo apporto ai fini dello sviluppo delle attività dell’associazione sia per esigenze di carattere ritorsivo-intimidatorio, quanto analitiche indicazioni e direttive impartite ai sodali del gruppo». Condannato a sette anni e dieci mesi anche suo figlio, Monir Samia che, insieme all'altro minorenne della banda Faouzi Yassin Labidi (il giovane che, fisicamente, rispose al campanello suonato dal segretario del Carroccio) era dedito «alla rivendita dell’hashish e della cocaina all’interno del quartiere, avvalendosi della costante collaborazione di una serie di giovanissimi soggetti». Un'indagine sviluppatasi dopo l’omicidio di Nicola Rinaldi, il giovane di 28 anni ucciso dal vicino di casa, Luciano Listrani, nell’agosto del 2019 in via Frati. Un atto criminale legato a debiti di spaccio. Le indagini sul clan Rinaldi hanno evidenziato «la caratterizzazione familiare dell’attività illecita e il dato di assoluta continuità rispetto a quella che era stata sino a poco prima posta in essere dal giovane deceduto».

 

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