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Giancarlo Cancelleri e Andrea Marcucci, tutti in fuga dalla sinistra

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Per carità, nulla di sistematico. Però ci sono due addii che, ieri, dicono qualcosa circa la ridotta attrattività che, in questo momento, scaturisce dal blocco sinistro del quadro politico. In Sicilia il passaggio più eclatante: Giancarlo Cancelleri aderisce a Forza Italia. Chi ha seguito la politica negli ultimi 10 anni sa bene che la sua figura qualcosa vuol dire: il pionierismo del radicamento del Movimento 5 Stelle nell’Isola. Con i «gialli» fu candidato per due volte alla presidenza della Regione. La seconda volta, nel 2017, arriva secondo dietro Nello Musumeci, con un onorevole 34,65%, sedici punti in più rispetto al candidato del Pd. Poi, Cancelleri fu viceministro nel secondo governo Conte e Sottosegretario nel governo Draghi. Ma ha dovuto dire addio a ruoli elettivi per la regola dei due mandati come tetto massimo. E proprio su questo, Conte ha tirato una rasoiata: «Abbiamo fatto bene a mantenere il limite del doppio mandato». E i deputati del Movimento 5 Stelle all’Ars sfoderano per l’occasione il vecchio campionario antiberlusconiano: «A Giancarlo Cancelleri, che finalmente ha trovato un approdo politico, auguriamo buona vita», inoltre «sulla sua collocazione finale evitiamo di fare commenti, se il partito che gli ha dato ospitalità, e in cui evidentemente si rispecchia è il partito di Berlusconi, Dell’Utri e Schifani la cosa si commenta da sola e in maniera eloquente». Lui, che ha ufficializzato il passaggio durante una kermesse degli azzurri al Politeama («C’è un nuovo amico in sala», ha detto nel suo intervento il coordinatore nazionale Antonio Tajani), la spiega con umiltà: «Non ho incarichi istituzionali, arrivo senza portare nulla in un partito a cui non ho contribuito. Non sono candidato a nulla e non voglio nulla. Sono a disposizione di Schifani e del partito facendo l’attivista, non porto voti e non ho debiti con nessuno». Però, al di là dello schermirsi circa il suo peso, qualche voto Cancelleri dovrebbe averlo.

 

 

 

 

Capitolo Pd. Qui si è consumato l’addio di Andrea Marcucci. Già capogruppo in Senato la scorsa legislatura, non è riuscito a strappare la riconferma a Palazzo Madama nell’uninominale di Livorno. Di lui, post renziano di provenienza liberale (fu giovanissimo deputato PLI a neanche trent’anni), da tempo trapelava il disagio verso l’ossatura identitaria della segreteria Schlein. E infatti è arrivato il riepilogo: «Non rinnoverò la tessera Pd per il 2023 – ha scritto sui social - Il partito di Elly Schlein è molto lontano da quello che penso io. Incontrerò la nuova segretaria nei prossimi giorni, per spiegarle i motivi della mia decisione. Il Pd ha comunque una funzione molto importante: competere con i 5 Stelle, la possibilità di costruire un’alternativa alla destra passa comunque da un forte ridimensionamento del partito di Conte. Quanto al Terzo Polo, meglio concentrarsi sull’ipotesi concreta della federazione, non sul partito unico. Sento il dovere di lavorarci». Dunque, l’approdo è nell’affannato cantiere calendian-renziano. Le cui condizioni alquanto disastrate al momento costituiscono un antidoto che protegge Schlein dall’addio in massa di moderati del Pd. Chissà, però, quanto potrà durare.
 

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