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Letta e Calenda, quanto vale l'intesa tra Pd e Azione: il tira e molla per 16 collegi in più

Carlantonio Solimene
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Alla fine sembra più un gioco del cerino. Un tirare volutamente la corda sperando che sia l'altro ad assumersi la responsabilità della rottura. L'ormai stanco tira e molla tra Enrico Letta e Carlo Calenda non ha trovato una soluzione neanche ieri. Il giorno, cioè, che lo stesso leader di Azione aveva indicato come deadline per definire una volta per tutte l'alleanza o la rottura con il Partito democratico. Non è bastata la «stretta di mano scambiata tre giorni fa» (rivelazione di Letta), né la lettera-ultimatum inviata da Calenda e Benedetto Della Vedova domenica pomeriggio. Ci si riproverà stamattina, alle 11, in un incontro a tre alla Camera dei deputati.

Presenti, appunto, Calenda, Letta e Della Vedova. Ma l'impressione è che i punti di partenza restino troppo lontani per siglare un accordo. Il segretario del Pd chiede un'intesa senza veti nel nome del «fermare la destra». Il leader di Azione pretende che i Democratici non schierino nei collegi uninominali i nomi «sgraditi» (Di Maio, Bonelli e Fratoianni su tutti) e che dal Nazareno diano risposte chiare su temi come i termovalorizzatori o il rigassificatore di Piombino. Condizioni che Letta non può soddisfare. Perché significherebbe rompere l'unico asse rimasto a sinistra dopo l'addio ai 5 Stelle.

L'impressione, insomma, è che ci siano poche chance di ricucitura. E allora perché insistere? Per almeno sedici buoni motivi. Che è il numero dei collegi nell'uninominale che - secondo una stima di YouTrend e Cattaneo Zanetto & Co - il centrosinistra conquisterebbe in più se riuscisse a mettere d'accordo Azione e Sinistra. Compito improbo, tanto più che a nonvolerlo, in fondo è lo stesso Calenda. Che preferirebbe di gran lunga la corsa in solitaria al centro (o al massimo con Renzi) ma è costretto a restare al tavolo da Emma Bonino. Che di Letta è una grande amica (fu ministra degli Esteri nello sfortunato governo guidato dal segretario Dem) e ieri ha detto parole chiare: «Il solo sospetto che diamo un voto di più alla destra putiniana è una cosa che non voglio portarmi dietro come eredità politica. Vediamo tutti di far una doccia e raffreddare il cervello che è andato in ebollizione». E siccome l'esenzione dalla raccolta firme per presentarsi alle elezioni è appannaggio proprio della Bonino, Calenda deve stare attento anche a non rompere con gli attuali compagni di viaggio. Un rompicapo, insomma. Cui, peraltro, si aggiunge il vero calcolo dei seggi guadagnati grazie all'accordo. Perché se nell'uninominale si avrebbero indubbi vantaggi, nel proporzionale Azione potrebbe pagare caro l'addio alla «purezza» rivendicata in questi anni.

In particolare la Fondazione Einaudi, «incubatrice» del progetto liberale inizialmente sposato da Calenda, sarebbe pronta a mollare l'europarlamentare in caso di accordo col Pd. E dato che lui aveva puntato molto sui vari Benedetto e Giannino per accreditarsi al centro, l'emorragia nei grandi collegi proporzionali del Senato, dove conta molto il voto di opinione, sarebbe considerevole. Se ne saprà di più (forse) oggi. Con Matteo Renzi spettatore interessato. Unire le forze di Italia viva e Azione/Più Europa, infatti, farebbe comodo soprattutto all'ex rottamatore. Che indica il 5% come obiettivo della campagna elettorale.

Ma, al momento, col suo partito viaggia pericolosamente sotto la soglia di sbarramento del 3%. Sempre che lui riesca a mantenere rapporti cordiali con Calenda. Il ché, oltre a non essergli riuscito in passato, rappresenta una sfida improba persino per i mediatori più ecumenici.

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