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Elezioni, Luigi Di Maio presenta il suo "Impegno Civico" pieno di contraddizioni: il nuovo partito

Pietro De Leo
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Benvenuti al sabba delle contraddizioni, dello scurdammoce o passato, dell'«Impegno», dei moderati, sorrisi e cravattine stirate. Insomma, l'inaugurazione della nuova creatura politica, «Impegno Civico», messa in campo da Luigi Di Maio e Bruno Tabacci e presentata ieri a Roma. In grande, nel simbolo, ci sono un'ape, la denominazione del partito e il cognome del ministro degli Esteri. In piccolo, invece, c'è, appunto, anche il logo del glorioso partito del già compagno BR1 (per dirla con una fortunatissima pagina Facebook a lui dedicata, i «Marxisti per Tabacci», ai tempi delle primarie di centrosinistra dieci anni fa) che quanto a solidarietà non ha concorrenti. Sì, perché quel marchio politico vale tantissimo, come una scialuppa, o meglio una cannula d'ossigeno che ha esentato da una difficile raccolta delle firme per la presentazione delle liste prima +Europa e oggi, appunto, la creatura politica dimaiana. Dunque, facendo un rapido calcolo, siccome Azione di Calenda può non raccogliere le firme grazie alla sinergia elettorale con +Europa, per la proprietà transitiva Calenda non ha l'incombenza grazie a Tabacci. E quest'ultimo non si fa sfuggire l'occasione: «Se non vi fosse stato il Centro Democratico neanche Calenda avrebbe il simbolo: si affida a quello di +Europa che cinque anni fa non esisteva, che esiste grazie a me. Quindi se Calenda si può presentare alle elezioni è anche per merito mio».

E ci sta tutto questo sussulto di rivalsa verbale, incontestabile, nell'era dei grandi Veti e dei grandi Vuoti (politici). Dove non si capisce il confine tra le convinzioni e il fare di necessità virtù. Alla seconda categoria appartiene, senz' altro, quest'unione così strana. Il fu volto educatino del partito antisistema che voleva aprire il Palazzo come una scatola di tonno e l'anello di congiunzione di Prima Repubblica, Seconda Repubblica, e questa Repubblica di transizione dall'uno vale uno all'ormai vale tutto. Anche mettersi a fare i garantisti da street food. «Aboliamo le dieci leggi che stanno rendendo un inferno la vita degli amministratori e delle loro comunità», dice Di Maio presentando l'inquadramento programmatico della sua creatura politica. Perciò, l'invito: «Mettiamo mano all'abuso di ufficio che costituisce la paura della firma per tanti sindaci».

Una roba che vale dieci volte una conversione sulla via di Damasco, per chi deve le sue fortune politiche al manettarismo cieco e sfrenato. E ancora, il ministro degli Esteri sostiene che il suo sia «un partito riformatore che guarda con attenzione a innovazione, ecologia, giovani e al sociale. Non vogliamo parlare agli estremismi, a coloro che fondano la politica sul no».

Tutto bello, soprattutto il fatto che queste parole provengano da quel leader che, neanche quattro anni fa, assieme al suo allora socio politico Alessandro Di Battista andò in Francia a incontrare i gilet gialli facendo germogliare una mezza crisi diplomatica visto che era ministro nel Conte 1. Ma nell'epoca dove tutto è accelerato, da ribellista a centrista è un attimo. Specie si è guidati da un mentore come Tabacci, sei legislature in Parlamernto, cinque delle quali consecutive. «Luigi è più giovane dei miei figli. C'è un passaggio generazionale, un investimento nel futuro».

Insomma, per il ministro degli Esteri basta seguire il maestro e altri anni di politica come ammortizzatore sociale sono assicurati. E chi se ne frega se Beppe Grillo, quasi contestualmente all'evento di Di Maio, ha pubblicato sui social un personalissimo «Grande album di figurine degli Zombie» che come prima foto vede proprio l'ex capo politico. «Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio» scrive sul suo blog il comico malinconico. Peccato che Di Maio da contagiato ci stia benissimo. Oramai il cordone ombelicale è del tutto reciso, robe come il tetto ai mandati appartengono al lido lasciato appena in tempo. Ora, con Tabacci, limiti non ci sono. Né agli incarichi né alla provvidenza.

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