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Governo Draghi fino a quando: il premier fa l'equilibrista. Su armi, spiagge, giustizia e rifiuti i partiti si ribellano

Carlantonio Solimene
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Matteo Renzi può non essere simpatico. Ma ha l’innegabile capacità di comprendere meglio di altri il funzionamento del «Palazzo». E così non va presa sottogamba un’affermazione contenuta nel suo ultimo libro, «Il mostro»: «A Palazzo Chigi, oggi, il più politico di tutti è proprio il premier». Si riferiva, l’ex rottamatore, all’imperizia dei più stretti collaboratori di Mario Draghi, colpevoli - a suo dire - di averne vanificato la corsa al Quirinale. A dispetto, appunto, di un «super Mario» che ha l’aspetto algido del tecnico, ma in realtà sa muoversi piuttosto bene nei meccanismi della politica.

Un’ultima dimostrazione di quanto sostenuto da Renzi sta in quanto accaduto nelle ultime settimane, nelle quali un Draghi sempre più in difficoltà al cospetto della sua riottosa maggioranza, è andato alla ricerca delle sponde più disparate per restare in sella e per non tradire l’immagine di «uomo del fare». Veicolando l’immagine del premier irremovibile proprio mentre, in realtà, si faceva concavo e convesso con gli interlocutori.

Gli esempi sono molteplici. In primis, quando i soci della maggioranza hanno alzato troppo la voce Draghi non ha esitato a coinvolgere nello scontro le istituzioni più importanti. È di qualche giorno fa la lettera alla presidente del Senato Casellati per blindare l’iter del Ddl Concorrenza. Ma, solo qualche settimane prima, di fronte all’ennesima levata di scudi di Giuseppe Conte sulle armi all’Ucraina, non ha esitato a salire addirittura al Quirinale per ventilare la minaccia delle dimissioni. Ben sapendo che nessuno, tra i leader che lo sostengono, potrebbe intestarsi una crisi di governo in piena tempesta internazionale di fronte all’opinione pubblica.

L’opinione pubblica, appunto. Draghi ha a che fare con chi - da Salvini a Conte - sa bene come manovrare le leve del consenso. Ma, negli ultimi tempi, il premier ha dimostrato di non essere da meno. Ha fatto notizia, sabato, l’elogio riservato alla moglie di fronte agli studenti della Dante Alighieri di Sommacampagna, in Veneto. Una parentesi «a cuore aperto» che, però, non è una novità. Fa parte, piuttosto, di un’«operazione simpatia» avviata diverse settimane orsono, da quando il premier - nonostante la fitta agenda interna ed estera - ha inaugurato un tour nel Paese. Lui stesso, nell’intervista al Corriere del mese scorso, non ha fatto mistero di come le cose siano cambiate: «All’inizio si diceva che ero distante dalla gente. Non so, ora ho la sensazione di esserlo meno e io stesso ne ricavo gran conforto». A qualcuno potrebbe venire in mente un tragicomico precedente, quello di Mario Monti con in braccio il barboncino «Empy». Ma Draghi è troppo furbo per commettere lo stesso errore. Non «salirà» in politica rischiando il flop. Semmai assisterà senza opporsi ai movimenti di chi, pur senza coinvolgerlo direttamente, vorrebbe cucirgli addosso una proposta elettorale in grado di sponsorizzarne il ritorno a Palazzo Chigi anche dopo il voto del 2023.

Futuro remoto. Il presente parla di incomprensioni, affanni, difficoltà. E così Draghi l’equilibrista utilizza tutte le armi in suo potere per restare in sella. A partire dal «divide et impera». Si confronta con i governatori leghisti più pragmatici dei parlamentari. E mette alle strette i ministri portandoli ad appoggiare battaglie - come quelle sul Ddl Concorrenza - che i partiti di provenienza contestano. Con i leader usa il bastone e la carota: cede sul catasto col centrodestra ma fa il duro sul tema dei balneari; ignora Conte sulle armi ma poi, al cospetto di Biden, assume la postura più pacifista per accontentare la maggioranza.

Così, in qualche modo, il governo va avanti. E, quando l’esperienza a Palazzo Chigi volgerà al termine, si penserà al futuro. Il bis al governo? La segreteria generale della Nato? La presidenza del Fondo Monetario Internazionale? Una sola cosa è certa: Draghi l’equilibrista cadrà sempre in piedi.

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