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Quesiti, numeri e posizioni dei partiti. Ecco tutto quello che c'è da sapere sui referendum sulla Giustizia

Carlantonio Solimene
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Il prossimo 12 giugno gli italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari riguardanti il funzionamento della giustizia. Si voterà in concomitanza con il primo turno delle Amministrative in circa mille Comuni italiani, ma solo la domenica, dalle 7 alle 23. Per validare il risultato della consultazione occorre che alle urne si rechi almeno il 50% più uno degli aventi diritto. Fari puntati quindi sull'affluenza, che da un lato sarà incoraggiata dall'election day - per lo meno nei Comuni interessati dal rinnovo delle Giunte, tra cui 25 capoluoghi di Provincia - dall'altro rischia di pagare lo scotto dello svolgimento in un weekend praticamente estivo, a scuole chiuse, e con la possibilità di votare un solo giorno. Se ci si reca alle urne sarà possibile anche chiedere di esprimersi su solo uno o alcuni dei quesiti e non su tutti. Lo spoglio, domenica sera, partirà proprio dai referendum, mentre il giorno dopo toccherà alle Amministrative.

COME SI E' ARRIVATI AL REFERENDUM

Il rapporto tra politica e giustizia è da sempre uno dei nervi scoperti della storia italiana, in particolar modo dagli anni di Tangentopoli in poi. E' stata questa la motivazione che ha spinto i Radicali e la Lega di Matteo Salvini - i partiti che si sono caricati l'onere di fare campagna per la raccolta firme - a presentare sei quesiti che - intervenendo su Csm, funzioni, custodia cautelare, legge Severino ecc - potrebbero a loro avviso limitare lo "strapotere" delle toghe emerso negli ultimi anni, in cui governi e semplici amministrazioni locali sono stati spesso condizionati, quando non cancellati, proprio da inchieste della magistratura successivamente rivelatesi infondate. In realtà poi la richiesta referendaria è stata sottoscritta da nove consigli regionali - tutti a guida centrodestra - e la consegna delle firme non è stata più necessaria. La Consulta ha poi esaminato la costituzionalità dei referendum proposti e, tra i sei sulla Giustizia, ne ha bocciato uno: quello che introduceva la responsabilità diretta dei magistrati. La Corte non lo ha ritenuto rispondente al dettato della Carta costituzionale e così la disciplina del punto in questione resterà la medesima: chi ha subito un caso conclamato di malagiustizia può rivalersi sullo Stato ma non direttamente sul magistrato. Va annotato che la Consulta, nella medesima seduta, ha anche bocciato i due quesiti presentati dai Radicali su eutanasia e legalizzazione delle droghe leggere. Una circostanza accolta con rammarico dai promotori dei referendum sulla giustizia, perché due temi così "popolari" avrebbero potuto fare da traino per attirare alle urne più elettori possibile.

 

I QUESITI AMMESSI

Sono cinque e ognuno di loro affronta temi piuttosto dibattuti all'interno del pianeta giustizia.

Il primo quesito viene presentato come «riforma del CSM». Sostanzialmente interviene sul sistema elettorale per l'elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura. Attualmente è previsto che per candidarsi sia necessario raccogliere le firme di almeno 25 colleghi magistrati. Il referendum abrogherebbe questa norma permettendo a chiunque di presentarsi senza cercare il supporto dei colleghi. Questo, nelle intenzioni dei proponenti, renderebbe minore il peso delle correnti nel determinare l'elezione dei membri del Csm. Membri che, così, non sarebbero poi costretti a "sdebitarsi" nello svolgimento della propria funzione. I sostenitori del no, invece, ritengono che una variazione così minima del sistema di elezione risulterebbe completamente ininfluente. Insomma, il nome del quesito - riforma del Csm - sarebbe del tutto sproporzionato rispetto agli esiti reali del referendum. C'è da notare, inoltre, come una riforma più organica del Csm sia tutt'ora in discussione in Parlamento. In particolare, dopo essere stata approvata dalla Camera, attende il sì del Senato. Che, in ogni caso, non arriverà entro il 12 giugno.

 

Il secondo quesito riguarda l'«equa valutazione dei magistrati» ed è quello tecnicamente più complesso. Si punta ad abrogare le regole che limitano la partecipazione dei membri non togati alle deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari. Questi due organi, tra le varie cose, formulano i pareri finalizzati alla valutazione di professionalità dei magistrati da parte del Csm. Oltre ai magistrati, ne fanno parte esponenti dell'avvocatura e professori universitari. Come detto, però, la loro partecipazione è ammessa in un numero limitato di casi. Il referendum cancellerebbe le limitazioni e, di fatto, anche professori e avvocati potrebbero sempre dire la loro sulla professionalità delle toghe. I proponenti sostengono che aprire le valutazioni a soggetti estranei all'ordine giudiziario possa renderle più oggettive e meno condizionate dalla corporatività. I sostenitori del no, invece, ritengono che la funzione giudiziaria sia troppo delicata per affidare le carriere dei magistrati al giudizio di professori o avvocati che, magari, in un futuro potrebbero trovarsi a essere controparte in un giudizio degli stessi magistrati valutati.

Il terzo quesito riguarda la «separazione delle carriere dei magistrati». Attualmente il passaggio tra la funzione giudicante (il magistrato) e quella requirente (il pubblico ministero) è regolato nel dettaglio da una serie di norme e vincoli. Il referendum, abrogando tutte le norme sul passaggio, di fatto lo renderebbe impossibile. Ogni "togato" dovrebbe scegliere quindi a inizio carriera se svolgere la funzione di giudice o quella di pubblico ministero. Secondo i proponenti, applicare questa distinzione rigorosa eviterebbe quella "contiguità" tra le due figure che talvolta rischia di minare l'equità e l'indipendenza del giudice. L'accusa, in altre, parole, svolgendo lo stesso lavoro del magistrato, avrebbe una familiarità con esso e un indubbio vantaggio sulla difesa. Non solo nel corso del processo, ma anche durante le indagini, con la "benevolenza" dei vari giudici chiamati ad autorizzare o meno misure cautelari e strumenti investigativi come le intercettazioni. Chi contesta il referendum, invece, sostiene che sottraendo il pubblico ministero della giurisdizione dei magistrati, questo finirebbe sotto il controllo del governo. Di fatto, perderebbe autonomia nell'azione penale e la difesa dei diritti e delle garanzie nello svolgimento delle indagini sarebbe legata al clima politico contingente. Anche su questo aspetto, peraltro, interviene la riforma Cartabia attualmente in Parlamento. Il testo prevede che sia consentito un solo passaggio nella carriera dalla funzione giudicante a quella requirente o viceversa. E che questo possa avvenire solo nei primi anni di lavoro.

Il quarto quesito intende porre «limiti agli abusi della custodia cautelare». E' tecnicamente piuttosto complesso ma si può semplificare così: attualmente la custodia cautelare in carcere in attesa di giudizio è possibile solo se, secondo il giudice, si verifica almeno uno di questi tre presupposti: pericolo di fuga, rischio di inquinamento delle prove, possibilità di reiterazione del reato per il quale si è sotto procedimento. Il quesito referendario, sostanzialmente, mira a cancellare, o per lo meno a rendere molto più rara, l'ultima fattispecie. E cioè la reiterazione del reato. Secondo i promotori del quesito la norma attuale, in base a questo presupposto, tende a giustificare in moltissimi casi una forma gravissima di limitazione della libertà personale pur in assenza di prove certe o di sentenza definitiva. I sostenitori del no, invece, ritengono che un'abolizione così "tranchant" rischierebbe di indebolire uno strumento di prevenzione fondamentale. Si citano, ad esempio, l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge violento), oppure il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di atti persecutori). Va notato, peraltro, che il quesito lascerebbe intatto l'attuale quadro legislativo per quanto riguarda i reati di mafia o quelli commessi con arma da fuoco.

Il quinto quesito, infine, si propone l'«abolizione del decreto Severino». Mira semplicemente a cancellare la legge introdotta in funzione anti-corruzione ai tempi del governo Monti e che prevede una serie di misure per limitare la presenza nelle cariche pubbliche elettive di soggetti autori di reato, stabilendo il divieto di ricoprire incarichi di Governo, l’incandidabilità/ineleggibilità alle elezioni politiche o alle elezioni amministrative, o la decadenza da tali cariche, in caso di condanna definitiva per determinati delitti. Secondo i promotori del referendum alcuni meccanismi della legge Severino, come la sospensione automatica dalle cariche elettive in caso di condanna non definitiva, risultano dannosi sia per le istituzioni che per i soggetti coinvolti, specie quando si arriva poi a una sentenza definitiva di assoluzione. I sostenitori del no, invece, ricordano come il quesito miri a cancellare non solo gli aspetti controversi della norma, ma l'intera misura legislativa. Compresa la parte che regola la decadenza e l’incandidabilità dei parlamentari condannati con sentenza definitiva a una pena superiore a due anni di reclusione. La parte - va ricordato - che portò anche alla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore dopo la condanna a quattro anni per frode fiscale.

LE POSIZIONI DEI PARTITI

A schierarsi per il sì al referendum, ovviamente, sono in prima battuta i partiti che hanno curato la raccolta firme, Radicali e Lega. Sostanzialmente compatto sulla stessa linea l'intero centrodestra. Si distingue però Fratelli d'Italia, che ha annunciato il suo no a due quesiti: quello sui limiti alla custodia cautelare e quello sull'abolizione della legge Severino. A favore di tutti e cinque i quesiti sono anche i partiti centristi Italia viva di Matteo Renzi e Azione! di Carlo Calenda.

Sul fronte del no si schierano invece il M5s e il Pd. Tra i Dem, però, i distinguo sono diversi. A dispetto del segretario Enrico Letta che ha appena ribadito come "la vittoria del sì sarebbe un problema", anche perché "una riforma compatta della giustizia non si può fare con cinque referendum abrogativi", sono tanti gli esponenti del Nazareno che hanno annunciato a sorpresa il loro sì per lo meno ad alcuni quesiti. L'ultimo è stato il sindaco di Bergamo (ed ex renziano) Giorgio Gori. Quest'ultimo si è detto a favore dei referendum su custodia cautelare, separazione delle carriere e abolizione della legge Severino. Una dimostrazione di come anche all'interno del Pd il feeling con la magistratura sia ai minimi storici.

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