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Basta silenzio sui referendum sulla giustizia. Spieghiamo alla gente che servono all'Italia

Riccardo Mazzoni
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Manca meno di un mese alla celebrazione dei cinque referendum sulla giustizia, ed è sempre più grave e intollerabile la cappa di silenzio – politico e mediatico – scesa su uno strumento popolare di cui si è troppo abusato in passato, ma che questa volta rappresenta un’occasione storica che sarebbe irragionevole sprecare. Bisogna però essere realisti: tutto sembra congiurare per il non raggiungimento del quorum.

Ci aveva pensato per prima la Corte Costituzionale cancellando il quesito più popolare, quello sulla responsabilità civile dei magistrati, lo stesso che ottenne un autentico plebiscito nel 1987 sull’onda emotiva suscitata dal caso Tortora, ma poi rimasto lettera morta a per la colpevole pavidità della politica e per il crescente potere della casta togata. Poi la guerra in Ucraina ha inevitabilmente distolto l’attenzione dalle ordinarie vicende di politica interna, tutte ormai monopolizzate dalle spaccature ideologiche fra atlantisti e antiamericani. A completare infine questo quadro a tinte fosche c’è stato l’atteggiamento pilatesco del governo, che ha sì deciso l’election day del 12 giugno accorpando i referendum alle elezioni amministrative parziali, ma si è tenacemente opposto alla richiesta di estendere il voto anche alla giornata di lunedì, per cui il voto locale, che coinvolgerà solo otto milioni di elettori, finirà per essere un traino del tutto insufficiente. 

Dopo la fiammata della scorsa estate, con il boom della raccolta di firme sulle spiagge e il meritevole impegno della strana alleanza fra Lega e radicali, la spinta propulsiva referendaria sembra dunque essersi persa per strada, non solo per le concause appena elencate, ma anche e forse soprattutto per il tiepido sostegno delle forze cosiddette garantiste e dei loro leader, che si sono finora limitati a qualche dichiarazione di maniera, lasciando il solo Salvini – che come garantista non è un modello di coerenza – a tirare la carretta referendaria. 

 

Eppure la questione giustizia dovrebbe di per sé costituire una formidabile calamita di interesse, visto che incide sulla carne viva del Paese, sulla libertà dei cittadini e sulla stessa qualità della democrazia. Per troppi, lunghi anni la magistratura – insieme ai suoi terminali politici – ha goduto di un consenso popolare vastissimo nella veste di giustiziera della politica corrotta, ma dopo la nemesi dello scandalo Palamara la sua credibilità è scesa ai minimi termini. I guasti causati dalla supplenza della magistratura politicizzata da Tangentopoli in poi sono evidenti, con gli avvisi di garanzia a tutela degli indagati divenuti sentenze di condanna anticipate, con la ghigliottina mediatica costantemente in azione e con lo strumento della carcerazione preventiva trasformato da eccezione in regola.

 

I quesiti referendari, come sempre accade, sono eminentemente tecnici, e andrebbero quindi illustrati ai cittadini, che hanno altro a cui pensare tra guerra, bollette e crisi economica, con una mobilitazione delle coscienze che invece sembra proprio mancare. Andrebbe spiegato, prima di tutto, che questi non sono referendum contro la magistratura, perché mirano anzi a valorizzare proprio giudici e pm estranei al gioco delle correnti che hanno subito un immeritato discredito a causa degli scandali. Ma è giusto porre un argine all’indipendenza della magistratura scambiata per impunità assoluta, e non è un atto di lesa maestà valutare quante inchieste sono state aperte in base a una fittizia obbligatorietà dell’azione penale, con costi altissimi per lo Stato e sofferenze indicibili per gli indagati, e poi finite sistematicamente nel nulla. Così come la separazione delle carriere non è una provocazione, ma rientra nella logica del processo accusatorio introdotto più di trent’anni fa e mai pienamente attuato. Sono tutte questioni basilari per una democrazia liberale, che la riforma Cartabia affronta solo in minima parte. Per questo serve che i referendum non falliscano: forse siamo ancora in tempo.
 

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