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Giustizia, il referendum può ridare credibilità ai magistrati

Riccardo Mazzoni
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La sfida referendaria potrebbe rappresentare l’ultima spiaggia per una vera riforma della giustizia, ma la montagna da scalare è altissima per motivi contingenti – all’ostilità delle sinistre si aggiunge l’inspiegabile apatia di parte del fronte garantista – oltre che storici, visto che nell’ultimo quarto di secolo il quorum non è stato raggiunto in ben sette delle otto precedenti consultazioni indette, a riprova di quanto è aumentata la disaffezione degli italiani verso questo strumento popolare. Manca meno di un mese al 12 giugno, e la maggioranza assoluta degli italiani dichiara o di non aver approfondito i quesiti o, comunque, di non avere intenzione di votare. Servirebbe dunque una mobilitazione generale di cui ancora però si intravedono solo labili tracce, ma i cinque quesiti su cui saremo chiamati ad esprimerci toccano quasi tutti i punti nevralgici del malfunzionamento della giustizia, e vale quindi la pena tentare di invertire la tendenza, perché in gioco c’è la qualità stessa della vita democratica.

Il quesito sulla separazione delle carriere, ad esempio, ha il merito di intervenire col bisturi su un’anomalia quasi esclusivamente italiana. Abbiamo introdotto da più di trent’anni il sistema processuale accusatorio, ma siamo rimasti a metà del guado: nei Paesi che hanno adottato da sempre questo sistema, come Stati Uniti e Gran Bretagna, non esiste infatti una magistratura «irresponsabile». In Gran Bretagna il pm è l'avvocato dell'accusa, e non dirige le indagini, affidate a Scotland Yard, mentre in Usa il Procuratore è il capo della polizia giudiziaria, come da noi, ma ha una responsabilità elettorale, e se sbaglia viene mandato a casa e non promosso come accadde agli accusatori di Enzo Tortora. «L'Italia è l'unico Paese al mondo – ha scritto l’ex magistrato Carlo Nordio, presidente del Comitato per il sì - dove il pm ha le garanzie del giudice e i poteri del superpoliziotto, senza dover mai rispondere a nessuno». Le vicende giudiziarie degli ultimi trent’anni hanno evidenziato uno squilibrio patologico tra accusa e difesa, con un sistematico uso politico della giustizia culminato nello scandalo Palamara. Il modello del giusto processo previsto dall’articolo 11 della Costituzione – e proprio di ogni democrazia liberale – non può realizzarsi senza un giudice terzo, ossia realmente equidistante tra il pubblico ministero e la difesa. «Parità» tre le parti deve significare anche equidistanza, ed è un fatto che questa equidistanza venga compromessa dall’appartenenza dei giudici e dei pubblici ministeri allo stesso ruolo e alla stessa carriera. E qui si arriva al nocciolo della questione: il problema non è l’imparzialità del giudice, legata alle doti soggettive della persona, ma la sua effettiva terzietà, che riguarda il ruolo istituzionale ricoperto. Quindi, un giudice che appartiene allo stesso ruolo del pm può essere certo imparziale, ma non potrà mai essere davvero percepito come «terzo». Per garantire il diritto pieno alla difesa, dunque, la strada maestra è la separazione delle carriere chiesta dai promotori dei referendum.

È stato soprattutto l’esercizio anomalo del potere accusatorio, accompagnato dalla grancassa mediatica su maxi-inchieste troppo spesso finite nel nulla, a far precipitare la credibilità della magistratura. Quante volte i pm, trasformando l'obbligatorietà dell'azione penale in una sconfinata discrezionalità, sono riusciti a imporre il principio della presunzione di colpevolezza degli indagati, avviando inchieste che, formulato il giudizio di primo grado, sono poi cadute in appello o in Cassazione, ma solo dopo la rovina di vite e carriere? È crollato così il mito della magistratura infallibile alimentato dalla narrazione compiacente degli anni di Tangentopoli, e la vittoria referendaria sarebbe il modo migliore per voltare finalmente pagina.

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