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Draghi era il "migliore dei migliori". Ma la politica è un'altra cosa

Hoara Borselli
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Draghi, ritenuto da tutti il migliore dei migliori, nonostante abbia dimostrato da subito la sua disponibilità a traslocare da Chigi al Colle mettendosi come nonno, a servizio delle istituzioni, oggi inizia a maturare la consapevolezza che la politica voglia liberarsi di lui. Nonostante continui ad aleggiare il suo nome, l’uomo del «whatever it takes» sta perdendo terreno. 

 

Se non è bastata la condizione emergenziale in cui versa il Paese, attanagliato da una pandemia da cui siamo incapaci ad uscirne, con scuole nel più profondo caos, crisi energetica senza precedenti, Pnrr da dover portare a termine e debito pubblico in costante crescita, per far salire al primo scrutinio l’uomo che tutto può è tutto fa, una ragione sostanziale c’è. E va ravveduta in un timore oggettivo che hanno i grandi partiti consapevoli che se già averlo a Chigi significa non toccare palla su alcuna decisione importante, farlo sedere al Colle per sette anni, significa stare in una sorta di aspettativa parlamentare pagata dagli italiani senza lavorare. È evidente che Draghi al Quirinale non sarebbe quell’arbitro super partes che si muove solo per tagliare nastri, celebrare i caduti o fare gli auguri di fine anno durante lo storico discorso alla Nazione a reti unificate. Non solo garante ma detentore del potere esecutivo in una sovrapposizione di due figure, quella di Capo dello Stato e Capo del governo con un Presidente del Consiglio relegato a comparsa.

 

Si sta allontanando giorno dopo giorno la consapevolezza che Draghi sarebbe il Presidente della Repubblica perfetto, o meglio stanno capendo che potrebbe diventarlo solo se non se ne riesce a trovare uno che sgombri definitivamente dal campo il suo nome dalla rosa. Che poi nella trattativa in corso fra i vari leader di partito, diciamoci la verità , si rassicurano sul nuovo eventuale esecutivo subordinando a questo l’eventuale scelta sul nome da proporre. Determinante nella scelta è la sola garanzia di non andare a casa, di scongiurare una crisi di governo e sgombrare il campo dall’incubo di eventuali elezioni. Questa è la variabile che muove scelte e nomi tenendo il stallo la figura di Mario Draghi che con la sua dipartita da Palazzo Chigi innescherebbe un terremoto di cui non si possono prevedere i morti e feriti che lascerebbe per strada.

 

Se Berlusconi era ritenuto divisivo, mai come Draghi incarna perfettamente questa definizione così abusata da quel centrosinistra che ne ha fatto la sua battaglia ideologica contro il Cavaliere. Il «migliore» sta spaccando tutti i partiti. Dal centrodestra che è determinata dopo decenni a voler imporre un nome che ne incarni l’appartenenza di area e che fin dal principio ha dichiarato che non intende alcun riposizionamento di Draghi da Chigi al Colle, al centrosinistra che vede in Letta l’unico vero grande sostenitore del premier con frange interne allo stesso Pd che non sarebbero in alcun modo disponibili a valutarne anche solo l’ipotesi. 

Mentre i partiti studiano tutte le strategie migliori per uscirne con un trofeo personale in mano, super Mario osserva e valuta. Consapevole di avere una maggioranza di governo che non trova coesione neppure rispetto a chi ne è a capo, probabile che con un colpo da maestro sia lui stesso a sfilarsi da questo esecutivo anche se non dovesse farlo per traslocare al Quirinale. I grandi leader non dovrebbero mai dimenticare che Draghi è un tecnico e non un politico che ha accettato di traghettare il Paese fuori da un’emergenza lavorando sulle soluzioni e non dovendo passare le giornate a dover risolvere la guerra dei Roses all’interno del Parlamento. La partita del Colle nasconde anche questa incognita, ovvero, se non dovessero promuoverlo al Quirinale, deciderà di dismettere i panni da premier, con un inchino salutare tutti i presenti e guadagnare l’uscita? Ai grandi elettori l’ardua sentenza.
 

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