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Enrico Letta ' comunista' farà perdere il Partito Democratico: strategia fallimentare come quella di Bersani

Riccardo Mazzoni
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Siamo onesti: nessuno, neanche i più scettici sulle sue non eccelse qualità di leader, avrebbe potuto immaginare che il mite Enrico Letta, alias Clark Kent della politica, sarebbe tornato da Parigi nella veste di un Nembo Kid massimalista alla guida del Partito democratico. I suoi primi settanta giorni al Nazareno sono stati una continua prova muscolare, dalla decapitazione immediata dei due capigruppo parlamentari filorenziani all'imposizione di un'agenda politica di impronta identitaria che ha virato la rotta del partito tutta a sinistra, per cui il neosegretario più che segnare discontinuità col predecessore appare uno strano ircocervo a metà tra Zingaretti e Bersani. Un Bernie Sanders de' noantri, insomma, che non ha neppure un Joe Biden a fargli da contraltare. Sembra quasi che negli anni dell'esilio parigino Letta non abbia fatto solo il preside della Scuola Affari Internazionali dell'Università Sciences Po, ma si sia fatto contaminare dalle suggestioni della Comune, quell'esperienza protorivoluzionaria socialista tanto cara ai sessantottini di cui si celebrano i 150 anni, iniziata il 18 marzo del 1871 e che si concluse il 28 maggio, dopo appena 71 giorni, con un bagno di sangue.

 

 

Senza ricorrere a ricorsi storici ovviamente impropri, la metamorfosi lettiana ha davvero dello stupefacente, e conferma la maledizione del Pd, in cui dalla sua nascita il riformismo non ha mai trovato pieno diritto di cittadinanza. Non a caso la stagione della vocazione maggioritaria di Veltroni e l'interregno dell'alieno Renzi sono finite in archivio senza quasi lasciare traccia. La stessa trasformazione di cui fu protagonista Bersani, esponente di punta del comunismo emiliano, storicamente pragmatico e riformista, che ai tempi dell'ultimo governo Berlusconi entrò nell'aula della Camera indossando l'eskimo, e più che il leader di un grande partito di opposizione apparve all'emiciclo esterrefatto come un Mario Capanna senza barba, un capopopolo in cerca di visibilità. Reduce dalla protesta sui tetti di Roma contro la riforma universitaria, l'allora segretario Democratico, invece di restituire una salda barra riformista al Pd, vestì i panni del leader guerrigliero e portò avanti pervicacemente quella linea fino ad umiliarsi in streaming tentando inutilmente di convincere i Cinque Stelle a fare un governo insieme a lui. Ebbene, ora Letta pare proprio intenzionato a seguirne le orme, mettendosi al servizio delle pulsioni grilline con l'illusione di conquistare l'elettorato di un Movimento in dissoluzione, riducendo il Pd al ruolo di cinghia di trasmissione della Cgil in Parlamento sulle politiche per il lavoro e mettendosi di fatto di traverso all'azione del governo Draghi, di cui aspirava ad essere il primo azionista e ora ne è diventato invece il primo sabotatore.

 

 

Voleva cacciare Salvini dalla maggioranza, e si è messo nella condizione opposta, quella di fungere lui da forza centrifuga. Per cui ogni settimana è costretto a chiedere udienza al premier, per assicurare ogni volta che «c'è piena concordanza», e che il Pd «non è un ostacolo, ma parte fondamentale di questo governo». Un metodo di Letta e di governo seminato di estenuanti stop and go che stanno mettendo in fibrillazione anche autorevoli colonnelli del partito che dopo Zingaretti non si aspettavano certo un segretario in versione tupamaro. Il quale però, nonostante i ripetuti no di Draghi, non ha alcuna intenzione di recedere dalle battaglie divisive, come quella sulla tassa di successione: «Quando nasciamo - ha infatti twittato ieri - siamo uguali. Un minuto dopo siamo diversi: a seconda di chi sono i nostri genitori, di chi ha più o meno soldi. E giusto che chi ha molto di più per nascita dia una parte a chi non ha avuto la stessa fortuna». Al sessantottino Letta ormai manca solo l'eskimo: se lo farà prestare da Bersani, convinto sodale di una strategia perdente.

 

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