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Corsa al Quirinale. E' ora: basta Pd sul Colle

Riccardo Mazzoni
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Il governo Conte bis è nato sulla base di un contratto d'argilla che prevedeva sostanzialmente due obiettivi politici riassumibili in due parole tanto simboliche quanto lontane anni luce: Papeete e Quirinale. La prima, dal sapore squisitamente balneare, raffigurava l'urgenza del contrasto alla pretesa salviniana dei pieni poteri enunciata da Milano Marittima, la seconda proiettava invece, ambiziosamente, la durata dell'esecutivo almeno fino all'elezione del nuovo capo dello Stato puntando direttamente al Colle più alto di Roma. Che poi la maggioranza si sia trovata subito a navigare tra Scilla e Cariddi, e che abbia trovato in un mefitico virus l'alleato per non finire subito a gambe all'aria, è un altro discorso. Più passano i mesi, più la maggioranza vede avvicinarsi la meta agognata, e la corsa è già iniziata. C'è, però, un dettaglio fastidioso: per arrivare al 2022 prima bisognerebbe saper governare il Paese e farlo uscire il meno a pezzi possibile dall'emergenza del Covid.

Ma quali sono le forze che possono mettere in campo i tre blocchi parlamentari usciti dalle elezioni del 2018? Vediamo.

</DC>Secondo il dettato costituzionale, il presidente della Repubblica viene eletto da 1009 grandi elettori: 630 deputati, 315 senatori e 59 delegati regionali. Nelle prime votazioni è prevista una maggioranza qualificata, mentre dalla quarta in poi basta la maggioranza semplice, che si raggiunge dunque con 505 voti. In teoria, il blocco storico più vicino al traguardo di quota 505 è quello di centrodestra, che può contare - tra Lega, Forza Italia e Fdi - su 255 deputati e 140 senatori, ai quali vanno aggiunti gli undici totiani di Cambiamo e 33 delegati regionali, che potrebbero diventare 37 in caso di vittoria in quattro regioni alle elezioni di settembre. Il totale adesso è comunque di 440 voti certi: per raggiungere la maggioranza necessaria ne mancherebbero 65.

Il Movimento Cinque Stelle, dopo la continua emorragia di defezioni, che potrebbe continuare nei prossimi mesi, arriva adesso a quota 296, avendo conservato 201 deputati e 95 senatori.

Il terzo blocco, quello di centrosinistra, dispone dei 125 parlamentari del Pd (90 alla Camera e 35 al Senato) ai quali vanno sommati i 49 di Italia Viva (31 alla Camera e 18 al Senato con l'arrivo da Forza Italia del neorenziano Carbone), i 16 di Leu (11 alla Camera e 5 al Senato) e 26 delegati regionali, per un totale di 216 grandi elettori.

In questo conteggio, mancano all'appello ben 58 "apolidi": 29 al Senato (8 delle Autonomie, 15 del Gruppo Misto, 2 del Maie e i senatori a vita Rubbia e Piano) e 31 alla Camera (3 di +Europa, 3 del Maie, 4 delle Minoranze linguistiche, 4 di Popolo Protagonista e 17 deputati non iscritti ad alcuna componente.

Questo è il quadro completo degli schieramenti, da cui si evince una prima considerazione molto semplice: il Pd, che ha espresso gli ultimi tre Presidenti e che ha stretto l'alleanza con i grillini proprio con l'aspirazione dichiarata di mantenere per diritto divino la poltrona più alta della Repubblica, guida il blocco politico numericamente più debole e dunque più lontano dalla meta. E anche se riuscisse a far convergere i voti dei Cinque Stelle su un loro candidato, arriverebbe a 512, sette soli voti in più della soglia necessaria. Un margine troppo esiguo per essere rassicurante: nella mente dei candidati deve già scorrere come un incubo la carica dei 101 franchi tiratori che affossarono Prodi. Allora, peraltro, il Pd grazie al premio di maggioranza del Porcellum alla Camera era il partito di maggioranza relativa del Parlamento e figuriamoci quindi cosa potrebbe accadere fra due anni con questi numeri risicati. Tenendo anche conto dell'inaffidabilità congenita dell'universo grillino e dello spregiudicato eclettismo di Renzi, che nei giochi di Palazzo è un autentico fuoriclasse. Dunque, per Prodi, Franceschini, Veltroni, Sassoli, Casini e chi più ne ha più ne metta, in partenza la strada è molto in salita, e lo stesso Zingaretti ha già ammesso di non poter contare sul sostegno grillino. Anche se il re del vaffa, Beppe Grillo, ora si è convertito al rossogiallismo strategico, non controlla infatti più come un tempo le sue truppe.

L'unica certezza è che i Cinque Stelle, Movimento ormai molto più di poltrona che di lotta, non possono più puntare su un candidato di bandiera come Rodotà.

E proprio la faglia sempre più profonda che divide le anime grilline potrebbe diventare l'atout vincente per eleggere il nuovo capo dello Stato, e anzi potrebbe portare a scossoni politici anche molto prima. Per questo probabilmente Salvini ha lanciato nei giorni scorsi una parola d'ordine che è sembrata bizzarra ma non lo è: mandare al Colle un inquilino non solo che non sia del Pd, ma anche senza i voti del centrosinistra. Una sparata arrogante? Forse, ma più vicina alla realtà di quanto si possa ritenere, soprattutto se il segretario leghista avesse in mente un'alta personalità unificante, una grande mente politica ma fuori dai partiti. Il nostro assetto politico-istituzionale è cambiato profondamente da Scalfaro in poi, tanto da arrivare a una sorta di Repubblica «del Presidente» in cui il ruolo del Quirinale ha assunto un rilievo non più notarile ma più eminentemente «politico». Proprio per questo, se l'alternanza al governo è considerata la ricchezza della democrazia, il principio dovrebbe valere anche per il Quirinale, dove solo a causa di un'avversa combinazione temporale il centrodestra, per due decenni maggioranza nel voto degli italiani, non è mai riuscito a mandare un suo rappresentante. Qui si potrebbe riaprire il discorso dell'elezione diretta, ma per ora purtroppo è solo un'ipotesi dell'irrealtà.

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