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L'Italia ricattata dal premier Conte

Alessandro Giuli
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Peggio del sedicente partito di Giuseppe Conte c’è soltanto l’idea che possa servire a qualcosa, in Italia, un altro partito personale nato in laboratorio, senza base sociale e politica, concepito come una minaccia a uso interno nella maggioranza giallorossa o per modificare a proprio vantaggio i traballanti equilibri parlamentari. E’ verosimile che il chiacchiericcio intorno al fantasmatico progetto stia un po’ travalicando le reali intenzioni del presidente del Consiglio, il quale è notoriamente intento più che altro a tirare a campare. Ma è altrettanto vero che non esistono limiti al narcisismo, sopra tutto laddove questo si combina con l’esigenza di garantirsi spazi di autonomia e nella prospettiva di stabilizzare un consenso popolare al momento virtuale ma non certo marginale.

In altre parole, l’avvocato di Volturara Appula è consapevole di vivere un momento di fama apicale e di libertà d’azione irripetibile grazie all’emergenza pandemica. E tuttavia sa anche che le prime nubi già si addensano da giorni lungo la via: dalle inchieste giudiziarie collegate alle mancate zone rosse in Lombardia fino ai sussulti sociali in atto nelle viscere di una Nazione spaventata e incollerita, passando per le prime contestazioni di piazza e le diffuse insofferenze nella nomenclatura della compagine che sorregge il governo.

La risposta pubblica di Conte, se possibile, è talmente sfrontata da rasentare la provocazione: la convocazione degli Stati generali non fa che acuire il sospetto che Palazzo Chigi stia reagendo alla crisi con un’operazione mediatica priva di sostanza operativa e di concretezza; ma al tempo stesso si fa largo l’impressione che il presidente del Consiglio sia pronto a forzare la mano con gli alleati minacciando appunto di fare da sé, coagulando intorno alla sua persona il nucleo di un movimento personale indisponibile alla mediazione partitica e pronto a raccogliere i voti necessari a incunearsi nella dialettica neobipolare in atto, facilitato magari da una svolta proporzionalistica. Chissà. Resta il fatto che il processo in atto è totalmente scollegato dalla realtà e dalle esigenze primarie dell’Italia profonda, e non è nemmeno giustificato da una scadenza elettorale nazionale (avendo peraltro l’esecutivo rimandato alla fine di settembre, complice il Covid-19, l’appuntamento per le regionali e  il referendum sul taglio dei parlamentari).

In assenza di un autentico confronto pubblico nelle sedi appropriate, avendo inoltre il governo esautorato nei fatti il Parlamento e in particolare le Commissioni deputate a raccogliere le audizioni delle parti sociali e dei rappresentanti delle diverse categorie produttive, Conte sta veleggiando sotto costa senza una rotta precisa ma con una malriposta sicumera fondata sull’arma del duplice ricatto: o si fa così, oppure tornano al potere i sovranisti; o si fa così, oppure il premier si vedrà costretto ad anticipare i tempi del suo improvvisato disegno personalistico. La precedente esperienza di Mario Monti con la sua sfortunata (ma non del tutto ininfluente) Scelta civica, fatte le debite proporzioni tra il presidente della Bocconi e l’avvocato prescelto da Beppe Grillo, più che disincentivare certe fantasticherie pare invece incoraggiarle.

Soltanto il Partito democratico avrebbe in linea teorica gli strumenti politici e culturali per impugnare la situazione e rimettere ordine. Ma a quanto pare anche Nicola Zingaretti patisce un momento di debolezza interna e si mostra irresoluto, concedendosi al massimo qualche rabuffo vagamente minaccioso senza dare l’idea di avere in mano un’alternativa allo status quo. Ed è appunto nello stallo e nel disordine canonizzato che proliferano i miraggi dell’ambizioso Conte, tanto vacuo nella strategia quanto abile nella tattica dell’autoconservazione per inerzia generale e inanità circostante.

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