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Come l'oro degli italiani finì nelle casse del Pci

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Sangue e omertà dietro al tesoro di Dongo

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Nella massa di iniziative e di eventi (spesso di natura esclusivamente retorica e qualche volta purtroppo poco rispettose della realtà storica) con cui l'Italia sta celebrando il settantesimo anniversario della conclusione della Seconda Guerra Mondiale, rientra anche la decisione della Mondadori di mandare in questi giorni in libreria l'ennesimo saggio sulla vicenda del famoso "oro di Dongo" (Gianni Oliva, Il Tesoro dei Vinti). Per i pochi che non lo sapessero, si tratta di un ingente quantità di denaro, valuta estera, oro e preziosi (del considerevole valore di circa 8 miliardi di lire dell'epoca, secondo una stima attendibile), appartenenti ai fondi della Repubblica Sociale Italiana e che Mussolini aveva con sé nella propria improbabile fuga sul lago di Como quando, il 28 aprile 1945 - per l'appunto in località Dongo - cadde, insieme a 6 gerarchi, nelle mani dei partigiani della 52° Brigata Garibaldi. Una parte di questo patrimonio venne fatta sparire nei momenti immediatamente successivi alla cattura del Duce da una serie di persone che facevano parte della eterogenea platea dei presenti al fatto (da cui svariate ricchezze "improvvise" che caratterizzarono l'area negli anni successivi), ma il grosso fu catalogato dai partigiani nelle ore che seguirono e stivato in un locale e mezzo del Municipio di Dongo, dove la 52° Brigata Garibaldi aveva stabilito il proprio comando. Anche questa ingente parte dell'"oro di Dongo" tuttavia, nei giorni seguenti scomparve nel nulla (lasciando dietro di sé una scia di sangue che portò - fra l'altro - alla morte violenta dei partigiani che più sapevano della vicenda, il Comandante Neri e la staffetta "Gianna"). Dopo alterne vicende ne seguì un processo che avrebbe dovuto vedere alla sbarra autentici pezzi grossi del PCI di allora - fra cui l'onorevole Dante Gorreri e il futuro senatore Pietro Vergani - ma il provvidenziale "suicidio" di un giudice popolare fece finire tutto in una bolla di sapone e mise una pietra tombale sull'accertamento della verità, per lo meno di quella giudiziaria. Il libro di Oliva - senza nulla aggiungere a quanto da tempo acquisito dalla storiografia, soprattutto per merito di Fabio Andriola e Luciano Garibaldi - ha il merito di ribadire che la verità storica, quella - invece - è ormai abbastanza indiscussa. L'"oro di Dongo" finì nelle casse del PCI - quantomeno quelle clandestine che per decenni avrebbero accolto anche l' "oro di Mosca" - sfruttando l'opportunità offerta dalla morte immediata di Mussolini (forse vivo lui sarebbe stato più difficile sottrarre il tesoro al legittimo governo provvisorio italiano) e forse anche come compenso per quest'ultima. Perché la storia ci dice anche che la precipitosa uccisione del Duce rispose a una precisa richiesta inglese, in contrasto con i desideri degli americani (e dell' Office of Strategic Service, che cercò invece di salvargli la vita). La morte di Mussolini e il furto dell'"oro di Dongo" restano inestricabilmente collegati: una macabra manovalanza al servizio di interessi stranieri e una cruenta trama criminale. Come germe del "nuovo inizio" non è granché, ma la Storia non si cura delle pubbliche relazioni.

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