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Tutto a posto e niente in ordine

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Qualcuno ha visto «Too big to fail», il docu-film sul crash di Wall Street del 2008? Tratta dal libro del reporter del New York Times Andrew Ross Sorkin, è una ricostruzione fedele alla virgola, personaggi e dialoghi, del crollo della Le Il momento topico è quando Henry «Hank» Paulson, segretario al Tesoro di George W. Bush, istruisce Tim Geithner, che gli succederà in carica con Barack Obama ed all'epoca era presidente della Federal Reserve di New York, su come mettere le grandi banche americane al riparo dal virus Lehman: obbligandole a fondersi tra loro. In barba alla sacra separazione che ci vendono le democrazie anglosassoni tra governi, banche centrali e aziende private, e sull'inesistenza di conflitti d'interesse in ogni parte del mondo civile che non sia l'Italia, il Tesoro Usa dà dunque ordini alla Fed che a sua volta li trasmette ai grandi banchieri. Geithner quindi si chiude nel suo ufficio e allinea sul tavolo di lucidissima e solida quercia americana una sfilza di foglietti. Su ognuno c'è il nome di una banca: Goldman Sachs, Citi, Wells Fargo, JpMorgan, Morgan Stanley, Bank of America, e così via. Poi li sovrappone due a due decidendo, letteralmente a tavolino, chi deve mettersi con chi. Quindi convoca i Ceo - non prima di essersi procurato i dossier con retribuzioni e bonus (che Paulson conosceva benissimo venendo dal vertice della Goldman) - e pianta loro il pugnale alla gola. «Non uscirai da qui se non fai come ti dico» grida all'allibito numero uno della Wells Fargo. Ci è venuta in mente questa scena osservando come i poteri forti dell'Europa (per quanto forti si possa essere nell'Europa di oggi) si stanno occupando dei Paesi a rischio: come Paulson e Geithner si occuparono del post-Lehman Brothers. Stabilendo nel chiuso di poche stanze chi e come debba salvarsi, con tanti saluti al mercato. E con i risultati che vediamo oggi in America: debito e disoccupazione alle stelle, banche gonfie di utili e bonus, speculazione che ha ripreso a girare a mille. Eppure tutto fu fatto per il meglio, con l'obiettivo di evitare guai peggiori. In Europa, nei tre i paesi che sono finora ricorsi ai prestiti del fondo salva-stati, Irlanda, Portogallo ed ora Grecia, sono saltati i governi e subentrati nuovi esecutivi. Negli altri due in bilico ma too big to fail - Spagna e Italia - le elezioni e il rovesciamento della maggioranza sono già decise (Madrid) o probabili (Roma). Un caso, il pedaggio da pagare agli errori, oppure un'operazione in stile Paulson & Geithner? Certo è che quando l'European banking authority decide che sono a rischio le banche italiane e spagnole, in quanto hanno in portafoglio Btp e Bonos, e non quelle francesi e tedesche, dieci volte più esposte sulla Grecia, e quindi impone alle nostre di ricapitalizzarsi oppure di mollare i Btp, qualche dubbio viene. Il «flight to quality», l'obbligo di comprare solo titoli a tripla A, per esempio i Bund tedeschi, è una scelta di stabilità nell'interesse di cittadini e aziende, o qualcosa di simile al pugnale alla gola? E quanto questo diktat da 106 miliardi di euro incide sull'aumento dello spread tra Italia e Germania? Non lo sapremo mai: certo è che uno spread non è determinato solo dall'indebolimento di un titolo rispetto a un altro, ma anche dal suo contrario. Non siamo complottisti, ma l'ipotesi che si stia decidendo a tavolino che i Btp italiani siano ormai carta straccia ci ronza nella testa. E sapete perché? Perché è vero che i loro rendimenti sono giunti al 6,5 per cento: ma nei primi anni Novanta, con i governi rigoristi e tecnici di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, ne furono emessi in quantità a cedole tra l'8 e il 9. Ed occhio a un'altra differenza: oggi la vita media del debito italiano è di 7,2 anni. Nel 1992 era di 2,96 anni. Nel 1993 di 3,33. Perché mai un debito con durata più che doppia e rendimento inferiore, e denominato in euro e non in lire, diventa improvvisamente da allarme rosso? E perché banche e assicurazioni che finora si sono tenute in pancia titoli al 9 per cento, incassando pingui dividendi, adesso devono gettarli nel cestino? «È un problema di credibilità» spiega la francese Christine Lagarde, ascesa al vertice del Fondo monetario. Ma chi decide chi è credibile e chi no? Quel dubbio, che la «cooperazione rafforzata» prevista per le politiche economiche, l'Europa la stia applicando invece alla politica tout-court, continua a frullarci in mente. Sia chiaro: specie negli ultimi mesi i nostri politici, a cominciare da quelli di governo, tutto hanno fatto tranne che difendere i nostri interessi finché erano ancora difendibili. Non si può, come Berlusconi a Cannes, spiegare in un G20 con un plotone d'esecuzione spianato che l'Italia non è in crisi «perché i ristoranti sono pieni». Né si può preparare lo stesso G20, mentre ministri e sherpa affilavano gli artigli, andando alla Sagra della zucca di Pecorara (Piacenza). Dove Giulio Tremonti ha detto cose di questo tipo: «Sta venendo il tempo per mettere il pane al posto delle pietre, l'uomo al posto dei lupi». Quasi fosse Harold Stevens, il colonnello di Radio Londra (l'originale, non quella di Giuliano Ferrara): «La mucca non dà latte; le scarpe mi stanno strette; Giacomone bacia Maometto». La classe politica italiana è dunque colpevole. E se il Cavaliere si era illuso che farsi commissariare dalla Bce, da Bruxelles o ora dal Fmi, potesse salvargli palazzo Chigi, ha sbagliato i conti. Per un po' l'avevamo immaginato anche noi: finché non abbiamo visto che quelli che dovevano essere decreti legge si tramutavano nel tragitto piazza Colonna-Quirinale in maxiemendamenti, immortale strumento di ogni governo che non decide. Che le norme sul lavoro diventavano un tavolo con i sindacati, che la partita delle pensioni si risolveva mandando a riposo a 67 anni chi già ci sarebbe andato con le leggi in vigore. Ma ora, promuovendo un cambio di governo in un Paese sovrano, che cosa risolveranno i fragili padroni dell'Europa? Sul «Sole 24 Ore», Guido Rossi, l'avvocato prediletto dai miliardari di sinistra, ha scritto una cosa vera spezzando indirettamente una lancia a favore di tutte le sovranità umiliate: «I Paesi vengono costretti ad adottare programmi scritti da un organismo come la Bce, che non risponde a nessun governo, a nessun parlamento, a nessun popolo. Questa non è democrazia». In realtà la stessa cura Bce è opinabile e selettiva. Per esempio non si applica alla Francia, con le banche messe peggio delle nostre e dove la pensione è tuttora a 60 anni e l'Iva al 5,5 per cento. Ieri il premier Francois Fillon ha annunciato la nuova austerity: in pensione a 62 anni dal 2017 (quando da noi ci si andrà a 67 e 7 mesi), Iva ordinaria dal 5,5 al 7 per cento (in Italia l'abbiamo appena portata al triplo), pareggio di bilancio non prima del 2016 (per noi 2013). E dunque? Dunque la realtà è lì in tutta la sua evidenza: un cambio di governo in Italia difficilmente produrrà tutti i cambiamenti rigoristi ordinati dall'Europa. Ce li vedete il Pd e la Cgil che approvano le modifiche sul mercato del lavoro? O la fine del capitalismo municipale sul quale prosperano da decenni? O la sinistra che vota quelle stesse norme firmate però da Mario Monti, per poi presentarsi agli elettori? Noi più banalmente pensiamo che un governo Monti farà una cosa sola, che il Pd accetterà volentieri: la patrimoniale da «botta secca», il terreno sminato e poi tutti alle urne. Ma pensiamo che a votare ci andremo prima, e quindi tutta la politica si paralizzerà. L'agenda europea sarà oggetto di terribili comizi nei quali tutti fingeranno di volerla difendere. Dopodiché sarà in gran parte accantonata, essendo anche qua e là sbagliata: le pensioni da toccare sarebbero quelle di anzianità, non di vecchiaia; la crescita si rilancia finanziando la ricerca e le infrastrutture, ed imponendo (sì, imponendo) Internet e l'inglese per tutti, non impiccando un paese con il secondo miglior deficit d'Europa al pareggio di bilancio in 24 mesi. Ma vedrete: quando «in nome di Dio» (copyright Financial Times) il Cavaliere e le sue barzellette non saranno più d'imbarazzo sulle moquettes europee, anche i problemi italiani si risolveranno. Come accadde tre anni fa a Wall Street, torneremo nei ranghi e tutto sarà a posto. Ma niente in ordine.

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