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Presidenzialismo o premierato, l'importante è la governabilità

Riccardo Mazzoni
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La rilettura degli atti dell’Assemblea costituente sulla forma di governo offre ancora oggi spunti di estrema attualità, all’inizio di una legislatura che dovrebbe portare a termine le riforme istituzionali in agenda nel programma della maggioranza. Einaudi, ad esempio, spiegò che la Repubblica presidenziale funziona bene negli Stati Uniti perché là c’è il bipartitismo, e che in Inghilterra funziona altrettanto bene il regime parlamentare, perché anche lì ci sono (c’erano...) solo due partiti, e concluse che dove non esistono i due partiti, ma una pluralità, «uno sminuzzamento», non funziona bene né la Repubblica presidenziale, né quella parlamentare. Un parere condiviso dall'onorevole Lussu, il quale aggiunse una considerazione figlia della situazione dell’Italia nel secondo Dopoguerra: sussistendo il pericolo della guerra civile occorreva mettere alla testa dello Stato un uomo che cercasse di evitarla. Il dilemma dunque era lo stesso che si ripropone tre quarti di secolo dopo: quale delle due forme di Repubblica, presidenziale o parlamentare, è più idonea ad avvicinare l'Italia ai Paesi in cui la democrazia funziona da secoli? La scelta allora cadde sul parlamentarismo, ma l’ormai famoso ordine del giorno Perassi per evitarne le degenerazioni non è mai stato applicato, per cui la nostra è una storia, salvo rare eccezioni, di precaria governabilità e di crisi politiche frequenti.

 

 

Eppure, è dimostrato che una democrazia, per funzionare, deve saper dotarsi di un esecutivo stabile, e che – a proposito del bipartitismo di cui parlavano i padri costituenti - in Italia il tentativo di semplificare il quadro politico si è fermato, nella seconda Repubblica, al bipolarismo Berlusconi-Prodi, accompagnato però da una nascita esponenziale di partitini che grazie all’utilità marginale hanno sempre condizionato negativamente la vita dei governi. Quindi il problema resta lo stesso posto da Calamandrei alla Costituente: «Come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti, ma che deve funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità di partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione?». La democrazia italiana, tra mille travagli, ha retto a prove anche durissime, ma nonostante nel corso degli anni sia apparsa sempre più urgente una revisione della seconda parte della Costituzione, i tentativi di modernizzarla sono sempre sistematicamente falliti. Ora il centrodestra, forte di un ampio mandato popolare, ci riprova con l’opzione presidenzialista, ma senza porre pregiudizi o preclusioni su altri modelli di riforma che mettano comunque i cittadini al centro delle scelte, attraverso un legame diretto tra voto e governo per superare definitivamente la stagione degli esecutivi di diretta emanazione quirinalizia o che hanno restituito centralità politica e ministeri a chi, come il Pd, ha sempre perso le elezioni.

 

 

Una necessità sottolineata dalla premier Meloni sulla base non di un arzigogolo politologico, ma di una constatazione empirica: negli ultimi venti anni la Francia ha avuto quattro presidenti, il Regno Unito cinque primi ministri e la Germania tre cancellieri, mentre l’Italia ben undici presidenti del consiglio. Da qui l’appello per una riforma «il più possibile condivisa», viste le precedenti esperienze della devolution e della Renzi-Boschi, approvate senza il concorso della minoranza e poi affossate dai referendum confermativi. Per cui in alternativa al semipresidenzialismo sta prendendo corpo l’ipotesi del premierato che non toccherebbe le prerogative del Quirinale, ossia una sorta di cancelliere italiano con un’autonoma legittimazione e con una garanzia costituzionale di ragionevole durata, in grado di giocare alla pari con gli altri premier sui tavoli europei, dove la precarietà dei governi ci ha sempre penalizzati. Nella consapevolezza che la forza della democrazia si gioca intorno alla governabilità.

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