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Giorgia Meloni sui migranti ha solo seguito la linea tracciata da Mario Draghi

Riccardo Mazzoni
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Ci sono agli atti alcune ferme prese di posizione del governo italiano sulla questione dei migranti che merita ricordare. Eccole: «L’Unione europea è in una situazione di stallo politico, dove è impossibile prendere una decisione che metta d'accordo i Paesi delle frontiere esterne e quelli dell'Est e del Sud, come l'Italia. Il problema dell'immigrazione va risolto in sede europea, e dobbiamo combattere per un accordo sulla redistribuzione dei migranti, tema su cui fino ad oggi non si è arrivati ad un punto». Poi: «Forse siamo il Paese meno discriminante e aperto il più possibile, ma anche noi abbiamo dei limiti e ora ci siamo arrivati. Noi cerchiamo di salvare vite umane, ma occorre anche capire che un Paese che accoglie non ce la fa più. I continui sbarchi stanno creando in Italia una situazione insostenibile». E infine: «Tra i Paesi dell’Unione esiste un’ampia convergenza sull’esigenza di superare il Regolamento di Dublino. Si tratta di una convenzione concepita in una diversa fase storica, adatta a gestire numeri contenuti. Al momento però una solidarietà obbligatoria verso i Paesi di primo arrivo attraverso la presa in carico dei salvati in mare rimane divisiva per i 27 Stati Membri. Serve un’alternativa di lungo periodo, per fare in modo che nessun Paese sia lasciato solo. Il Patto sulla Migrazione e l’Asilo proposto il 23 settembre del 2020 dalla Commissione Europea ha il merito di ricercare un cambio di prospettiva. Il negoziato sul Patto dimostra tuttavia che c’è ancora molto lavoro da fare».

 

 

 

Sono tutte frasi forti e inequivocabili - di aperta polemica nei confronti delle politiche comunitarie - pronunciate sia in Parlamento che a margine di importanti summit internazionali da un premier italiano, ma attenzione: non dalla sovranista Giorgia Meloni, bensì dal suo predecessore Mario Draghi, considerato in Italia e all’estero come il massimo emblema dell’europeismo. Questo per dire che la linea della fermezza scelta dal governo Meloni non è dettata da un’impuntatura identitaria su un tema caro alla destra, ma si basa su un dato di realtà che solo la sinistra finge di non vedere. Fu non a caso il governo Draghi a imporre la gestione dei flussi migratori nell’agenda del Consiglio europeo di fine giugno 2021: «Il governo – disse l’allora premier – vuole gestire l’immigrazione in modo equilibrato, efficace e umano, ma questa gestione non può essere soltanto italiana, deve essere davvero europea. Occorre un impegno comune che serva a contenere i flussi di immigrazione illegali, a organizzare l’immigrazione legale e aiutare questi Paesi a stabilizzarsi e a ritrovare la pace. Un migliore controllo della frontiera esterna dell’Unione può essere la base per un piano più ampio che comprenda anche il tema dei ricollocamenti».

Tutte questioni, però, che il governo Draghi, nonostante la riconosciuta autorevolezza del premier in Europa, ha palesemente lasciato irrisolte, perché gli sbarchi quest’anno sono aumentati in modo esponenziale, mentre il meccanismo dei ricollocamenti si è risolto in un fragoroso nulla di fatto. Per cui al nuovo esecutivo non restava che giocare la carta della discontinuità, nel tentativo di mettere una volta per tutte l’Unione di fronte alle sue contraddizioni, nella consapevolezza che non possono essere le Ong a decidere la politica migratoria dell’Europa. È bastato il caso della Ocean Viking, con i suoi 240 migranti, a far scatenare dalla Francia un abnorme putiferio diplomatico, ma spesso oportet ut scandala eveniant per uscire dallo stallo comunitario denunciato da Draghi, perché l’immigrazione di massa incontrollata rischia di diventare nei prossimi anni un fattore di destabilizzazione totale non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa.
 

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