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Anche le élite mollano il Pd e si convertono al centrodestra

Nuccio Bovalino
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Nel suo racconto «La Sfinge», Edgar Allan Poe narra di un’epidemia diffusasi a New York. Per evitare il contagio due amici decidono di abbandonare la moderna e vivace metropoli per trasferirsi in una casa di montagna. Un pomeriggio, mentre è intento a leggere davanti alla finestra, uno di loro, alzando gli occhi dal libro, scorge scendere dalle colline «un oggetto spaventoso, qualcosa come un mostro vivente di orribile aspetto». Credendo di essere preda della follia, alcuni giorni dopo l’accaduto trova il coraggio di confidare all’amico la terribile visione. Quest’ultimo, illuminato dalla descrizione fornitagli dall’uomo ancora visibilmente provato, lo rassicura: ciò che aveva visto era semplicemente una Sfinge, un insetto ripugnante e misterioso, che compiendo il suo «tortuoso cammino lungo un filo teso da qualche ragno sul telaio della finestra», per un’illusione ottica gli era apparso sproporzionato e raccapricciante.

Il breve racconto di Poe è una metafora dell’incapacità del Pd di ristabilire una connessione emotiva, ancor prima che elettorale, con il popolo. Ci pare quasi di vederlo il professor Letta, costretto ad abbandonare la colta e sofisticata metropoli parigina, mentre dalla «finestra» di un immaginario cottage cerca invano di decifrare la massa «mostruosa» e indisciplinata che proviene dalla periferia, quella reale e quella metaforica, quest’ultima da intendere come il luogo simbolico dove si snodano le vite di individui ai margini, il cui profilo esistenziale appare ai progressisti come una nebulosa inquietante e non addomesticabile.

I politologi hanno riletto le classiche fratture politiche insistendo sull’affermarsi di un inedito conflitto élite vs popolo, schema interpretativo dello scontro post-ideologico per cui il PD viene identificato come il partito delle ZTL a dispetto di un centrodestra ancora in grado di conquistare il consenso fuori dal centro storico. Il dramma del centrosinistra risiede nel dover prendere atto che tale verità elettorale oltre che ideologica pare non trovare più conferma. Non perché il Pd abbia recuperato un rapporto con le periferie, ma perché ciò che si prefigura all’orizzonte è la potenziale messa in discussione anche della «consolatoria» predominanza dei progressisti fra gli elettori «benestanti» e gli intellettuali.

L’attenzione per le idee esposte dai leader del centrodestra nei recenti confronti pubblici con la classe imprenditoriale e quella dirigente del Paese e un atteggiamento sempre meno pregiudiziale del sistema mediatico mainstream, indicano una inversione di tendenza. La complicità esibita da Giorgia Meloni con i vertici di Confindustria, l’accoglienza riservatale al Meeting di Rimini e l’apprezzata performance del leader di Fratelli d’Italia a Cernobbio, in occasione del Forum Ambrosetti, sono fatti che preludono a possibili trasformazioni delle gerarchie di potere.

Il centrodestra è riuscito a riallacciare, e in alcuni casi inaugurare, un rapporto proficuo con una parte di quei «poteri forti» che, seppur con qualche resistenza e ancora diffidenti, sono però pronti al dialogo con chi viene indicato dai sondaggi come il probabile vincitore delle prossime elezioni. Giorgia Meloni, in particolare, ha tessuto alacremente la propria rete di relazioni istituzionali, una ragnatela che ci riporta nuovamente al racconto di Edgar Allan Poe e a quel filo teso sul telaio della finestra, sul quale il centrosinistra, in preda all’ennesima allucinazione ideologica, vede prendere vita forme «mostruose» e manifestarsi i suoi peggiori incubi.
 

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