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È inutile prolungare l'agonia di governo. L'unità nazionale è ormai finita

Riccardo Mazzoni
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Il primo strappo è stato consumato ieri alla Camera con l'Aventino sul voto finale del decreto Aiuti, ed è già un passaggio ai limiti della crisi politica, ma se i Cinque Stelle faranno il bis al Senato, dove fiducia e voto finale coincidono, fare finta di nulla diventerà impossibile. L'unità nazionale è in frantumi perché il MoVimento è già con un piede e mezzo fuori dalla maggioranza: lo si è capito dai toni da tribuno usati dal capogruppo Crippa - considerato finora una colomba sgradita al cerchio magico contiano - che ha giustificato la scelta di disertare l'aula restando in maggioranza col sostegno a Draghi «già esplicitato sulla fiducia». Ma è un bizantinismo di corto respiro, perché il tempo per sciogliere i tanti nodi politici che Conte ha contestato per iscritto al premier ormai è ridotto al minimo, e pretendere risposte immediate su questioni complesse o addirittura irricevibili come il maxiscostamento di bilancio certifica una volontà di rottura che appare ormai incontenibile. È evidente che i vertici M5S ragionano ormai col metro di chi sente di avere le mani libere, altrimenti uno dei più ascoltati consiglieri dell'ex avvocato del popolo, il vicepresidente Turco, non si sarebbe spinto a chiedere un decreto da 30 miliardi contro l'inflazione. La mano tesa di Draghi è comprensibile, nel tentativo di salvare il salvabile, ma c'è un minimo etico, anche in politica, sotto il quale non si dovrebbe mai scendere, e assecondare una pantomima sulla pelle del Paese aprendo una stagione di ricatti incrociati nella maggioranza squalificherebbe prima di tutto chi siede a Palazzo Chigi.

 

 

In questo anno e mezzo ci sono stati altri distinguo nella coalizione di governo, con alcuni provvedimenti non approvati all'unanimità in consiglio di ministri, senza mai però far vacillare il rapporto tra governo e maggioranza in Parlamento. Ora anche quell'argine si sta rompendo: la fiducia è una cosa seria - come recitava un vecchio spot pubblicitario e se il secondo partito della maggioranza decide di non votarla è una scelta che non può rimanere senza conseguenze. Il vincolo esterno della guerra e le drammatiche ricadute sull'economia non possono diventare l'espediente per giustificare imboscate elettoralistiche, tese peraltro a lucrare su una tensione sociale che rischia di esplodere. In questi casi si cercano sempre lumi nei precedenti, ma è difficile ritrovare negli annali delle Camere situazioni così ibride e anomale, perché il dissenso politico è sempre correttamente sfociato nelle dimissioni di intere delegazioni di partito - il Pds uscì dal governo Ciampi nel '93 e il Pdl dall'esecutivo Letta nel 2013 - o di una componente di partito come accadde nel '90, quando i cinque ministri della sinistra dc presentarono le dimissioni irrevocabili dal governo Andreotti in disaccordo con il varo della legge Mammì. Allora il presidente del Consiglio accettò le dimissioni e incassò il voto di fiducia del Parlamento due giorni dopo e senza bisogno di aprire la crisi sostituì i ministri dimissionari. Uno scenario che potrebbe essere riproposto ora se i senatori grillini non partecipassero al voto di fiducia al Senato, anche se Draghi finora lo ha categoricamente escluso.

 

 

Ma come potrebbero restare nel governo i ministri di un partito che, uscendo dall'aula, sancirebbe una sfiducia di fatto all'esecutivo? Non è un problema di tecnica parlamentare, ma di serietà politica, qualità di cui si sono troppo spesso perse le tracce in questa legislatura. Siamo in un'emergenza senza precedenti, e non è tollerabile prolungare ulteriormente questa crisi strisciante e questo spettacolo da fine impero. Meglio tirare giù il sipario e voltare pagina prima che le macerie grilline travolgano anche la legge di bilancio.

 

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