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Per salvare il referendum serve una modifica del quorum. Sennò salta una parte della Costituzione

Riccardo Mazzoni
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I referendum hanno fatto la storia della Repubblica, a partire dal primo, che divise l'Italia in due archiviando la monarchia, e dagli anni Settanta in poi hanno contribuito in modo determinante al progresso del Paese facendo esprimere i cittadini sulle grandi questioni civili e sociali, dal divorzio all'aborto fino al taglio della scala mobile. Nella stagione delle ideologie e dei partiti-chiesa, fu la scapigliata pattuglia minoritaria dei radicali di Pannella a scavare sotto la pelle del Paese, a smuovere le acque della politica politicante e a intercettare pulsioni ed emozioni, uno strenuo e quasi eroico impegno premiato sempre da una grande partecipazione popolare. Come nel 1987, quando sull'onda dell'indignazione per il caso Tortora gli italiani votarono in massa per il sì alla responsabilità civile dei magistrati, un responso poi totalmente disatteso da un Parlamento che già sentiva il fiato sul collo del giustizialismo giacobino. Ma il fallimento dei cinque referendum di domenica sulla giustizia, che ha segnato il minimo assoluto della partecipazione, è la dimostrazione plastica che quella gloriosa storia è finita: l'istituto referendario sconta l'uso e l'abuso che se ne è fatto - 72 chiamate alle urne dal '46 a oggi spesso su temi troppo tecnici e poco sentiti - ed è ormai uno strumento giunto logorato alla meta, che in queste condizioni non ha più senso di esistere, perché da elemento cardine della volontà popolare ha preso le sembianze di un relitto della democrazia che ha perso ogni spinta propulsiva.

 

 

E pensare che i Cinque Stelle, dopo il clamoroso trionfo elettorale del 2018 sulla spinta dell'antipolitica, tentarono di dare la spallata definitiva al Parlamento attraverso l'introduzione del referendum propositivo che avrebbe determinato una competizione continua tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, un derby tra popolo e casta che avrebbe messo in continua fibrillazione le istituzioni. E il confuso dibattito che ne è seguito non ha fatto altro che moltiplicare le incertezze nei riguardi di un istituto democratico già in crisi, con il nodo del quorum come spartiacque cruciale per misurare la qualità democratica di quella riforma che, partendo dall'esigenza di coinvolgere in misura più diretta il popolo nelle decisioni politiche, rischiava però - con una quota di partecipazione fissata troppo in basso di alimentare la deriva populista rischiando peraltro di consegnare l'Italia al dominio di minoranze organizzate quasi sempre espressione di interessi di lobby. Col repentino tramonto politico dei Cinque Stelle quel rischio ora è scongiurato, ma abbassare il quorum rispetto a quello fissato dalla Costituzione diventa un passo obbligato, perché i tempi sono cambiati e la partecipazione democratica si è drasticamente abbassata, come in tutto l'Occidente: basti pensare che rispetto alle elezioni di settant'anni fa l'affluenza è calata del 30-40 per cento.

 

 

Il problema non si pone per i referendum confermativi, che prescindono dal quorum in quanto in quel caso vale come garanzia il fatto che la modifica costituzionale proposta ha già superato un doppio passaggio a Camera e Senato. Partendo dal dato che dal 1995 ad oggi nessun referendum abrogativo ha raggiunto il quorum, eccetto nel 2011 quelli trainati dai quesiti su nucleare e acqua, occorre una riforma che ne impedisca il sistematico fallimento insieme alla vittoria degli aventiniani che puntano sul non voto. Allo studio ci sono due soluzioni: legare la validità del referendum al 25% dei favorevoli, cioè del sì all'abrogazione, incentivando così chi è per il no a recarsi a votare. Oppure, più realisticamente, fissare il quorum alla metà della partecipazione registrata alle precedenti elezioni politiche. Altrimenti, bisogna prendere amaramente atto che un altro tassello del nostro sistema costituzionale è saltato.

 

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