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Crisi dei salari, dopo 38 anni ci mancava solo il ritorno del partito della scala mobile

Riccardo Mazzoni
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L’aumento dei prezzi delle materie prime iniziato un anno fa con la ripresa globale post-Covid, ha subito un’ulteriore accelerazione a causa della guerra in Ucraina facendo aleggiare in America e in Europa lo spettro da tempo rimosso dell’inflazione, con un rischio in più per noi: la stagflazione, brutta parola che prefigura uno scenario fatto di rincari senza crescita economica. In Italia, nei momenti di crisi, è sempre in agguato il partito dell’indietro tutta, ed era inevitabile che di fronte agli aumenti delle bollette energetiche e dei generi di prima necessità a sinistra tornasse a farsi sentire il partito della scala mobile «per difendere il mondo del lavoro». 

 

Un ritorno al passato evocato già, ai tempi del primo governo Conte, dai Cinque Stelle con un disegno di legge che prevedeva la rivalutazione automatica delle retribuzioni legata all’inflazione per i contratti scaduti e non rinnovati. Ora a cavalcare l’onda dei nostalgici si è posta – e non è certo una sorpresa – la Cgil di Landini, che chiede un rinnovo immediato dei contratti nazionali specificando che gli aumenti dovranno essere collegati all’indice dei prezzi complessivo, che è al 6,9 per cento, e non a quello depurato dell’energia, «altrimenti il risultato è che si riducono i salari». Sono passati trentotto anni dal 1984, quando il governo Craxi decise il taglio della scala mobile col decreto di San Valentino: Cisl e Uil lo sottoscrissero, dimostrando cos'è un sindacato riformista, ma la Cgil guidata da Lama fu costretta dal Pci, per ragioni esclusivamente politiche, a rompere l'unità sindacale e a raccogliere le firme per il referendum poi rovinosamente perso, e nei decenni successivi, esclusa la parentesi Trentin, il sindacato rosso non ha mai cambiato verso, attestandosi sulla sponda massimalista, ruolo che si attaglia perfettamente alla figura di Landini. 

 

La scala mobile fece salire l’inflazione a due cifre, e dopo l’accordo Agnelli-Lama del 1975, col punto unico di contingenza per tutelare le retribuzioni medie, i salari più bassi ne guadagnarono in termini reali grazie all’inflazione, mentre quelli più alti furono penalizzati. Un meccanismo che si rivelò perverso allora, e lo sarebbe a maggior ragione oggi, innescando una rincorsa – «vana» l’ha definita il governatore Visco - tra salari e prezzi, con l’unico risultato di riportare l’Italia a tassi di inflazione a due cifre. 

Nessuno può negare l’esistenza della questione salariale in Italia, l’alta inflazione e la riduzione del potere d’acquisto vanno arginati per evitare un crollo dei consumi e una pericolosa recessione, ma la strada da percorrere è un’altra, e passa non dal ripristino dell’indicizzazione automatica dei salari all'aumento dei prezzi, o dalla patrimoniale sul risparmio proposta da Landini, ma dal taglio del cuneo fiscale. In Italia abbiamo salari troppo bassi e lavoro troppo tassato, e un cuneo fiscale dieci punti sopra la media europea, e dobbiamo finalmente fare i conti con la cruda realtà: se gli stipendi italiani negli ultimi trent’anni sono rimasti fermi e quelli tedeschi sono invece saliti di oltre il 30 per cento è perché la produttività del lavoro da noi è cresciuta solo del 10 per cento e in Germania del 40. E’ dunque la produttività l’unica vera leva per aumentare le retribuzioni, e sarebbe estremamente rischioso scaricare sulle spalle delle imprese l’aumento del costo del lavoro senza un corrispondente incremento della produttività.
Il salario non può essere considerato una variabile indipendente dalla salute delle imprese, col risultato di mettere in crisi interi comparti già in difficoltà. Ma a sinistra riecheggiano in tutte le stagioni le vecchie parole d’ordine: tasse, patrimoniale e salario minimo, che come il reddito di cittadinanza, confonde il contrasto alla povertà con le politiche occupazionali. Mancava solo la scala mobile.

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