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di Gian Luigi Rondi Tempo fa, avendogli fatto assegnare un David di Donatello per celebrare i suoi 90 anni, mi sono sentito chiedere da un giornalista inesperto o troppo giovane, chi fosse Tonino Guerra.

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Poiho aggiunto: "Un poeta che si esprime con il cinema". Provando comunque il rimorso di tacere delle sue poesia su carta, in dialetto e in lingua. Ed anche della sua pittura. Perché è stato di certo un poeta, ma è stato anche un pittore. Con tutto un mondo da farci conoscere, il suo, e la natura e gli uomini e le cose: quasi con gli stessi segni dei suoi versi ora cantati ora parlati. Nella cui luce - e alla cui ombra - si ritrovavano poi anche tutti gli altri "segni" della sua creatività cinematografica. Quella che, dopo il momento solitario ed autonomo della pagina bianca cui affidare parole o colori, segnava il suo incontro con altri poeti, la comunicazione con altre ispirazioni, con l'obbligo - anche estetico - di accordarvisi senza mai tradirsi: per restare se stesso sublimando quella "concreazione" in un tutto unitario, frutto di personalità diverse ma sempre in simbiosi. Basterebbero tre o quattro nomi. Fra i maggiori del nostro cinema. Nomi che di solito annientano e che invece, con Tonino Guerra, non solo non avevano mai prevaricato ma si erano sempre arricchiti in una perfetta comunicazione di poetiche diverse eppure simili poi limpidamente assimilate. Antonioni, Fellini, Rosi, i Taviani. Nessuno l'un l'altro assimilabile, tutti assimilati a lui, fino ad essere tutt'uno con la sua poetica, ma lui - ecco il momento magico di queste collaborazioni - restando lui e loro restando loro. Antonioni con l'incomunicabilità dei Sessanta e, negli Ottanta, con le sue ricerche sul "pianeta donna". Rosi con le passioni che Antonioni eludeva (o circoscriveva) e con le dilatazioni dei temi che l'altro condensava fino allo scarno e al nudo. Mentre Guerra, soprattutto con Rosi, restava sempre fedele a se stesso anche quando gli impegni urgevano e i sentimenti si affacciavano prepotenti a chiedere spazi ("Uomini contro", "Il caso Mattei", "Lucky Luciano", "Cristo si è fermato a Eboli"). La polemica politica e sociale erano riusciti a portarla avanti con una voce sola, Rosi con l'ode, Guerra con la riflessione, trasmettendosi a vicenda il calore là dove serviva, il rigore là dove andava temperato il calore. Senza nessuna paura, al momento in cui il sentimento dilagava - in "Tre fratelli", ad esempio - di aprirgli tutti i varchi, ma alla luce di un modo nuovo di piangere in cui il pianto aveva radici nell'estetica e non nei visceri. E così con il "mago" Fellini: uno tutto fantasia e immaginario, l'altro, nella sua poetica, attento al vero e anche all'umile. Se c'era però da ricordare le comuni radici romagnole, i due universi - "Amarcord" - si erano trasformati quasi in uno solo, con vibrazioni identiche, il reale che diventava immaginato, il sogno che partiva sempre dal concreto: per ritornarvi. Le facce, i caratteri, i luoghi, la tenerezza e l'ironia, la nostalgia e la beffa: in quel film avevano la firma di Fellini ma si intonavano sempre alla musica di Guerra, sia alla sua "petite musique" sia alla grande. Con il magico che diventava poetico, la cronaca sollevata fino al verso, l'io di una memoria personale trasformato nell'io di una sottile operazione letteraria. Potrei dire quasi lo stesso per l'incontro di Guerra con i Taviani nella "Notte di San Lorenzo", il passaggio sfolgorante dal neorealismo di un tema ad una sua rappresentazione in cifre di musica e di favola. Dal tutto oggettivo al tutto soggettivo con una impennata, mai tentata prima d'allora, della cultura che tendeva a rinnovarsi. Di Guerra, nel film, c'era persino la sua stessa pittura, i fiori, i campi, "riletti" con il canto. E c'erano i suoi versi e l'equilibrio del suo gusto che frenava l'eccesso ma non si separava mai fino in fondo dal colore: perché il segno fosse umano, perché anche nella favola e in musica, la misura fosse sempre l'uomo.

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