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di MARIO BERNARDI GUARDI «La forma non è qualcosa a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto (?); anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto, tal forma».

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Ecioè a una conoscenza della nostra tradizione letteraria, che fosse permeata di coscienza civica. Del resto, secondo De Sanctis, la grande letteratura è espressione di questa coscienza, di questa ricchezza umana ed ideale, di questa riflessione interiore che non si chiude in un solitario narcisismo estetizzante ma ha a che fare con la storia e la vita. Nessuna astrazione: «La forma è la cosa». Tanto più forte è l'espressione poetica, quanto più il poeta è un magnanimo e uno spirito libero che ha esperienza del proprio tempo e, se necessario, lo sfida e ne patisce le conseguenze in nome di valori ideali irrinunciabili. Di cui si fa alfiere anche il critico che partecipa appieno di questa alta tensione etica: il poeta crea, lui ricrea, in comunanza di intenti. Sulla base di queste idee, De Sanctis, come ricorda Giovanni Getto, «coglieva la parabola della letteratura italiana nel suo apogeo, allorché con Dante contenuto e forma, poesia e artisticità, moralità e impegno civile ed estetico sono mirabilmente fusi» e ne vedeva poi il lento declinare già nel Petrarca, più «artista» che «poeta». Nel Rinascimento si assisteva a un crescente svuotarsi dei contenuti e ad un trionfo del formalismo, che si accompagnava alla progressiva perdita della libertà; il Barocco, poi, era il «colmo» della «vacuità morale e poetica». Ma ecco che la parabola torna ad ascendere: dopo l'Arcadia, col Parini, e più che mai con Alfieri e Foscolo, e infine col Romanticismo, Leopardi e Manzoni, si riaccendeva la coscienza etica e l'ideale veniva di nuovo calato nella realtà. Con tutti gli ammaestramenti civili e nazionalpopolari del caso. Ovvio chiedersi se una «Storia della letteratura» così «idealisticamente» motivata non finisca con l'essere «parziale». Nel senso che schematismo, didascalismo e moralismo possono apparire «tranchant» e l'occhio fisso sui «valori» può condizionare il «giudizio di valore» (come capita a proposito di Machiavelli, di Guicciardini, di Ariosto ecc.). Fino alla inevitabile domanda: se l'intellettuale non è impegnato, la sua opera non vale o vale di meno? Beh, De Sanctis non è - e non va considerato - un «monumento» e i suoi non sono «ipse dixit» indiscutibili. Anzi, più e più volte sono stati discussi e criticati. A partire da Benedetto Croce, rispettoso del Maestro di Morra Irpino, ma polemico nei confronti di una «storiografia che sommette la poesia a un criterio extrapoetico» e convinto sostenitore dell'arte come visione-espressione, conoscenza intuitiva e non concettuale, intuizione lirica senza fini morali ed utilitaristici. Nondimeno, e tenendo conto che i nuovi percorsi della critica letteraria (che però «invecchiano» presto: si pensi allo strutturalismo che per almeno un paio di decenni è stato la «fissa» di tanti intellettuali e prof. «à la page», e che da qualche tempo è finito nel dimenticatoio) ignorano - o quasi - il «modello» De Sanctis, il fascino della sua «Storia…» resta intatto. Prima di tutto per quella bella prosa ottocentesca, che non è priva di toni oratori e retorici, ma è «calda di affetti», e complice, e partecipe, più che mai là dove scattano l'ammirazione o l'indignazione. In secondo luogo, perché «dietro» e «dentro» quella «Storia…», comunque «grande», c'è la storia, non «piccola», di un intellettuale che non si limitò a scrivere o a lanciare messaggi, ma volle una vita «spericolata». Con tanto di attiva partecipazione al '48, e di conseguenti carcere (fra il 1850 e il 1853) ed esilio. In fondo, gli umori e i toni «accesi» della «Storia…» confermano la «fedeltà» dello scrittore (e, dopo l'Unità, deputato al Parlamento e ministro della Pubblica Istruzione) alla sua fiammeggiante giovinezza.

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