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Heaney, il doppio gioco di andarsene e restare

Seamus Heaney

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Perché sta tutto qui il nocciolo della sua poesia, e del suo essere: il punto di intersezione del senza tempo con il tempo, il filo che collega immanenza e trascendenza, l'essere qui e altrove. Heaney ieri a Cetona - nella Toscana delle tavole di Piero della Francesca - ha ricevuto il premio internazionale alla carriera del Cetonaverde Poesia 2009, terzo anno del riconoscimento nato in questo che è il buen retiro di Guido Ceronetti e della famiglia di Umberto Agnelli, di Valentino e di Mariella Cerutti Marocco, la lady dell'imprenditoria e della finanza che scrive versi e li ama tanto da aver voluto, appunto, il Cetonaverde. Dunque, il settantenne Heaney - l'altro Premio, per la poesia italiana, a Cesare Viviani - sullo sfondo di cipressi e colline, campagna alta e trascendente, nel convento francescano che padre Eligio ha trasformato in resort con l'impegno dei ragazzi strappati alla droga. Heaney gira e rigira attorno alla tensione esserci e non esserci, nel mondo. «La poesia è eterno presente», sussurra citando Orazio. E azzarda un paragone tra il poeta latino e Obama: «Belli tutti e due, capaci di stare nel mondo e di sprofondare nell'interiorità». Lui, Heaney, ha giocato la sua esistenza sul binario della separatezza e della inclusione. Nato nell'Irlanda del Nord, cattolico e contadino, si diede lo pseudonimo di "Incertus" quando prese a scrivere versi. E nel turbine della guerra civile, riceve una sorta di mandato sociale a rappresentare le ragioni della sua parte. Lo fa con la parola scritta, recuperando le tradizioni anche con gli oggetti della sua terra: come la zappa, il tagliarape, la radice di un albero, la sega. «E lo faccio - mi dice ora - anche con la lingua. Nel mio inglese recupero quanto si era perduto dell'irlandese. Anche Joyce in Finnegans Wake si prese una vendetta sull'inglese». Nel 1976 Heaney lascia la contea di origine e sceglie di vivere a Dublino. «Non una fuga - spiega - ma la necessità di trovare me stesso, fuori dalla pressione di dover fare propaganda. La poesia che sposa una causa è un problema che attraversa tutto il Novecento. Anche Montale ci si scontrò, durante il fascismo». Mai pentito dell'abbandono? «Mai. Ho lasciato per poter continuare a lavorare, è pericoloso vedere la propria anima da fuori. La mia terra la porto con me. Dove sono io è il problema dell'Irlanda del Nord». L'addio e il ritorno. Si intitola «District e Circle» il suo libro appena pubblicato da Mondadori, mirabilmente tradotto da Luca Guernieri. District è il luogo d'origine, o quel Glanmore Cottage dove Heaney ama scrivere. Circle è il giro che ha compiuto, allontanandosi e tornando dove era partito. Distanziarsi è avere coscienza di sé, «perché il compito della poesia è fortificare quello che abbiamo dentro, la fiducia». Così, se gli si chiede del G8 appena concluso, glissa: «Non so cosa sighifichi, sono questioni che attengono all'economia». Ma il mare calmo s'increspa se si evoca l'11 settembre. «Da colonizzato mi chiedevo quanto potesse durare il dominio degli Usa sul mondo. Forse me le aspettavo, le Twin Towers. Ma la reazione americana in Iraq e in Afghanistan lascia ancora i conti aperti». E torna coi versi a parafrasare Orazio: «Tutto può accadere, le torri più alte / essere abbattute».

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