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La nostalgia cosmica unisce Leopardi e Schopenhauer

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Vaste distese desertiche su cui pendono, silenziose e lontane, la luna e le stelle. Un uomo - un pastore con l'animo di poeta-filosofo, ma che in fondo rappresenta tutti noi, con le nostre inquietudini - le interroga e "si" interroga. In una sequenza di "perché?", che sono poi le eterne domande sull'universo, sull'uomo, sul tempo, sul destino, sul senso della vita e della morte. È il "Canto notturno di un pastore errante nell'Asia", una delle più intense e struggenti poesie leopardiane. E che fu ispirata al poeta dal brano di un articolo pubblicato dal "Journal des Savants". In esso si faceva riferimento alle memorie di viaggio del barone di Meyendorff, che, osservando i costumi di un popolo nomade dell'Asia centrale, i Kirghisi, notava che parecchi di loro passavano la notte seduti su una pietra ad osservare la luna, improvvisando discorsi pieni di malinconia e di mal di vivere su arie musicali altrettanto tristi.  Leopardi sviluppa questo spunto, trasformando il pastore in un alter-ego che contempla, riflette e chiede senza avere la grazia di una risposta. Perché risposta non c'è: o, se si preferisce accentuare l'amaro di una condizione che oscilla tra il dolore e la noia, con la breve parentesi dei sogni e delle illusioni giovanili, la conclusione di tanto inquieto investigare è che la vita non ha senso. Ma allora perché ci ostiniamo a vivere? Perché questa assurda volontà di esistere comunque? Perché restiamo attaccati all'inconsistenza mondana "finché morte non ci separa", anziché anticipare il momento del distacco? Francesco De Sanctis, nel dialoghetto filosofico "Schopenhauer e Leopardi", pubblicato nel 1858 sulla "Rivista Contemporanea", scrive: "Leopardi e Schopenhauer sono una cosa sola. Quasi nello stesso tempo, l'uno creava la metafisica e l'altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così e non sapeva il perché. Il perché l'ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille". È il "Wille" - la volontà - a condannare l'uomo al fenomeno, all'esistenza, alla storia. L'arte, con la tragedia e la musica, avvia il processo di redenzione spirituale. Ma per liberarci veramente dai lacci dell'individualità dobbiamo aprirci alla compassione, cioè all'amore verso gli altri e alla capacità di sacrificio, per poi attingere all'ascesi come totale negazione di sé e perfetta sublimazione contemplativa (il "nirvana"). Ebbene, Schopenhauer non aveva torto nel vedere in Leopardi un fratello in spirito. Perché, ammesso e non concesso che nel poeta di Recanati siano assenti o appena adombrate la consapevolezza e la consequenzialità del filosofo tedesco (ma la lucidità del Leopardi "pensatore tragico" è da anni oggetto di rinnovata attenzione: si veda, ad esempio, Mario Andrea Rigoni, "La strage delle illusioni", Adelphi, 1992), le lampeggianti intuizioni che illuminano "l'arido vero" hanno una forza straordinaria. Così come la tensione ascetica che non incrina mai l'eroica volontà di vivere "comunque" e non toglie nulla al non corrisposto amore per la Natura, matrigna, sì, ma anche infinitamente bella: e davvero nessuno, come Leopardi, ha saputo coglierne la malìa con tanta commossa partecipazione. Quanto alla "vicinanza" spirituale tra Leopardi e Schopenhauer che, per parafrasare De Sanctis, vivevano quasi nello stesso tempo e "rappresentavano" la stessa esperienza interiore, l'uno con la poesia, l'altro con la filosofia, basterà ricordare che "L'infinito" si conclude con un "naufragio cosmico" assimilabile al "nirvana", ma che trova anche "ascendenze" nella letteratura ascetica cristiana. Quella che Giacomo ben conosceva, anche perché abbondantemente presente nelle biblioteca paterna. E in un "Quaresimale" del Segneri si legge "Resterà subito il mio spirito assorbito in questo vasto Oceano di una grandezza infinita, ed ivi non ritrovando né spiaggia dove approdare né fondo dove giungere, amerò di andare eternamente annegandomi in un giocondo naufragio di contentezza"). Anche nel "Canto notturno" la possibilità di una immersione nel firmamento pare un annuncio di liberazione dai vincoli dell'Io : "Forse s'avess'io l'ale/ da volar su le nubi/ e noverar le stelle ad una ad una,/ o come il tuono errar di giogo in giogo,/ più felice sarei dolce mia greggia,/ più felice sarei, candida luna". Uno slancio nell'infinito del pastore/poeta? Quanto poi alla "compassione", l'ultimo Leopardi, quello della "Ginestra", ne ha ben chiaro il "profilo": una confederazione di uomini, non più separati da odii assurdi, ma uniti in una sorta di nobile patto amicale, che nasce dal rifiuto dell'"homo homini lupus". E all'insegna della solidarietà contro la natura ostile o indifferente che, in un attimo, come accadde a Pompei, Ercolano e Stabia nel 79 a.C., può scatenare sull'uomo un devastante torrente di fuoco. Eppure la ginestra continua a crescere lungo le pendici del Vesuvio, spargendo all'intorno il suo profumo: non si tratta però di ostinazione orgogliosa, ma di nobile, indomita testimonianza di fronte a una sconfitta annunciata, e che si ripete nei secoli. Forte come la morte, questo fiore che cresce? Forse di più.

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