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Giusto inviare le armi all'Ucraina, la pace si ottiene non indietreggiando

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Riccardo Mazzoni
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Chi teme che l’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Unione europea costituisca una nuova miccia per l’escalation militare con la Russia lo fa sulla scorta dei toni apocalittici usati dal Cremlino, con Putin che dichiara l’allerta atomica, il ministro Lavrov che parla di una possibile terza guerra mondiale solo nucleare e il suo vice che non esclude già ora scontri diretti con la Nato. Ma di fronte a violazioni così palesi del diritto internazionale, la storia dimostra che la pace alla lunga si ottiene solo accettando la sfida, non rifugiandosi sotto le bandiere oblique del pacifismo. In questo il Parlamento italiano, approvando gli aiuti militari a Kiev con l’assenso anche dell’opposizione, ha scritto una pagina impeccabile dal punto di vista strategico. La crisi ucraina sta dimostrando infatti che l’Orso sovietico ha cambiato nome ma non pelle, e resta una minaccia per la sicurezza europea e globale: in un secolo caratterizzato da guerre ibride e cibernetiche, il ritorno ai conflitti del Novecento rappresenta un improvviso tuffo nel passato del tutto imprevisto, ma non imprevedibile, e in questo cambio di paradigma c’è un precedente storico che resta il solco da percorrere per fermare un effetto domino in grado di sconvolgere il Vecchio Continente: la crisi di fine anni Settanta fra Europa occidentale e Urss, passata alla storia come la crisi degli euromissili. 

 

Nel dibattito parlamentare di martedì ne ha parlato il senatore Casini, ricordando la scelta dell'Italia di installare i Pershing e i Cruise americani sul proprio territorio per rispondere agli SS20 sovietici puntati contro le capitali europee. Una scelta apparentemente di guerra, ma ospitare gli euromissili in quel momento storico aprì la strada a una lunga stagione di pace e di distensione, perché il disarmo poi nacque proprio grazie alla decisione dei governi occidentali non di esporre le bandiere della pace davanti alla minaccia di Mosca, ma di compiere una scelta difficile e impopolare. 

 

L’escalation militare, anche in quel caso, era partita da Mosca, che aveva dispiegato vicino ai suoi confini occidentali missili balistico di nuova generazione in grado di colpire l’Europa ma non gli Stati Uniti. Fu il cancelliere tedesco Schmidt a lanciare l’allarme e a convincere il presidente Carter che quella minaccia avrebbe alterato gli equilibri della Guerra Fredda, ma senza l’adesione di Roma il piano della Nato sarebbe naufragato, perché la Germania aveva detto a chiare lettere che si sarebbe tirata indietro senza la partecipazione italiana. 

Il ruolo chiave lo svolse il Psi di Craxi: perché il nostro Parlamento desse il proprio assenso al programma di riarmo missilistico della Nato occorreva infatti una maggioranza di cui il governo Cossiga non disponeva. Il Pci era assolutamente contrario e anzi riempiva le piazze di manifestanti contrari, e quindi divenne decisivo il voto del Psi che in quel momento – era la fine del 1979 – era all’opposizione. 

 

La scelta degli euromissili seppellì definitivamente in Italia la stagione del compromesso storico, perché il Pci - dopo la svolta occidentale di Berlinguer che aveva detto di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato – subì il richiamo della foresta schierandosi ancora una volta dalla parte di Mosca. Contrordine compagni, insomma, in perfetto stile comunista. 

La convinta adesione dell’Italia alla deterrenza missilistica in Europa risultò cruciale nell’ottica della futura distensione: lo avrebbe riconosciuto, anni dopo, lo stesso ministro degli esteri sovietico Shevardnadze, secondo il quale la ferma risposta dell’Occidente pose il Cremlino davanti alla necessità di riflettere, e da lì cominciò poi il negoziato che si sarebbe concluso con l’azzeramento di tutti gli euromissili. Una lezione che in questa nuova crisi tra Ue e Russia non va dimenticata.

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