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L'Italia vince la guerra del vino contro l'Europa: niente etichetta sul cancro

Alessio Buzzelli
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Il vino italiano è salvo, almeno per ora: nessuna avvertenza sul rischio di cancro apposta sulle bottiglie e nessuna esclusione per le bevande alcoliche in generale dalla sponsorizzazione di eventi e competizioni sportive. Dopo ore di attesa, ieri il Parlamento Europeo ha dunque accolto gli emendamenti al così detto Beca (piano per la lotta al cancro) presentato dalla Commissione, segnando la vittoria di quella che è stata definita come la «linea italiana». Il rischio concreto era quello di ritrovarsi le etichette dei nostri vini invase da immagini «forti» come quelle presenti sui pacchetti di sigarette, con un danno inestimabile per l'intero comparto vitivinicolo italiano. Nonostante la «vittoria» ieri, però, il tema della difesa del made in Italy resta ancora di grande attualità: quello sulla nocività del vino, infatti, è solo l'ultima di una serie di proposte europee spesso penalizzanti per i prodotti italiani. Ne abbiamo parlato con la deputata di Fratelli d'Italia Ylenja Lucaselli.

Onorevole Lucaselli, come valuta la votazione sul Beca? È davvero una vittoria per l'Italia?
«Certamente è stato un voto positivo per il nostro Paese, anche grazie alla battaglia portata avanti dal gruppo Ecr-FdI. Analizzando però il voto di ieri sia sotto l'aspetto politico che economico, ciò che emerge è che, al di là della vittoria, purtroppo in Italia da troppo tempo abbiamo smesso di fare "cartello" tra le nostre aziende, al fine di tutelare in Europa i nostri prodotti come meriterebbero. E il fatto che sia stato scongiurato il peggio all'ultimo momento è lì a dimostrarlo».

 

 

Siamo deboli anche nella tutela di un prodotto così importante come il vino?
«La nostra produzione vitivinicola è unica al mondo: eccezionale in termini di numeri, qualità, biodiversità dei vitigni. Un'unicità che però è stata sempre data per scontata, come fosse un dato di fatto immutabile. Ma la realtà è diversa. Ad esempio la Francia, che pure non ha la nostra varietà di vini e in certi casi nemmeno la nostra qualità, è riuscita negli anni - a differenza nostra - a costruire un solido cartello di aziende, imponendosi così sui mercati internazionali. E come dimostrano gli ultimi episodi, gli interessi italiani sui prodotti vitivinicoli, a differenza di quelli francesi, non sono stati mai difesi fino in fondo».

Come dovrebbe muoversi l'Italia?
«Le possibilità sono diverse. Per restare all'esempio della Francia: quando si fanno le contrattazioni per l'export del vino con Paesi extra Ue, i produttori francesi stabiliscono un prezzo e parlano con una sola voce. Sempre. Noi invece non l'abbiamo mai fatto, soprattutto perché la politica non è mai riuscita a fare una sintesi dei diversi interessi che pure ci sono nel mondo vitivinicolo italiano». 

 

 

Insomma, in Europa ciascuno tirerebbe acqua al proprio mulino tranne noi?
«Banalizzando è così. È un po' quello che sta accadendo con il "Nutriscore": ci sono prodotti italiani assolutamente salubri che rischiano di essere etichettati come nocivi, mentre altri, assai meno salutari, potrebbero paradossalmente ricevere punteggi più alti. Perché troppo spesso prevalgono gli interessi di partito rispetto a quelli del Paese».

Dunque non aveva tutti i torti Indro Montanelli quando affermò che «quando si farà l'Europa unita, i francesi ci entreranno da francesi, i tedeschi da tedeschi e gli italiani da europei»...
«Il nostro Paese sulla difesa del made in Italy a mio avviso è sempre stato troppo remissivo, nonostante sia uno dei nostri punti di forza. Un po' perché abbiamo il vizio di pensare, sbagliando, che quello che abbiamo non ce lo può togliere nessuno, un po' perché una parte dei nostri rappresentati a Bruxelles non ha mai parlato con una voce sola. È necessario insomma avere un'idea più chiara e condivisa del ruolo che l'Italia dovrebbe ricoprire all'interno dell'Ue, maturando la consapevolezza che in Europa bisogna sì lavorare insieme, ma sempre nel rispetto delle diversità di ciascuna cultura».

 

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