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Ciao Monica, Roma e il mondo hanno una luce in meno

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Francesco Storace
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Roma ha una luce in meno. La città, l’Italia, il mondo piangono la scomparsa di un gioiello. Se ne è andata Monica Vitti, una delle più grandi protagoniste del cinema, che porta via con sé quel sorriso fantastico, intristito da una malattia inesorabile («Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re»). L’annuncio della sua scomparsa è stato affidato dall’uomo che aveva sposato in Campidoglio, Roberto Russo, a Walter Veltroni, che della città che amava è stato sindaco. E in fondo, Roma e Monica si somigliavano. «Sì – ci dice Veltroni – con quel senso dell’umorismo. E in fondo anche con quella malinconia». E i romani potranno portarle un fiore, mandarle un bacio, domani alla camera ardente in Campidoglio, dalle 10 alle 18. I funerali sabato alle 15 in piazza del Popolo, nella Chiesa degli artisti. 

 

 «Roma - amava raccontare Monica - è una città che può anche non stupirti, perché in fondo è pigra. È talmente sicura di sé, Roma, che non ha paura di niente. È lei che è eterna, mica noi». E pensare che otto anni della sua giovinezza li visse a Messina: «Sta picciridda javi sempre friddu», diceva di lei la maestra delle scuole elementari per quanti abiti portava addosso.

Indimenticabile Monica. Oltre i 90 anni non ce l’ha fatta e quanti ne hanno seguito la carriera colgono con sorpresa persino l’età. È stata un simbolo vero. A Roma, pochi come lei: da Alberto Sordi ad Anna Magnani, da Ugo Tognazzi a Vittorio Gassman, da Nino Manfredi a Marcello Mastroianni.E Gigi Proietti. 

 

Leggende che si ritrovano in Paradiso. Dove questa donna bellissima che faceva perdere la testa (anche se di sé diceva, bugiarda consapevole: «Le attrici, diciamo bruttine, che oggi hanno successo in Italia lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta») ritroverà nella sua anima la forza dei suoi anni migliori e farà sentire di nuovo quella sensazionale voce roca. 

Sì, quella di Monica Vitti è una morte capace di devastare chiunque l’abbia apprezzata nella sua inconfondibile vena artistica.

 

L’abbiamo accompagnata nei suoi bellissimi successi, applaudivamo persino tra le mura di casa nel sapere che quella splendida attrice italiana percorreva una carriera costellata da applausi e premi: le cronache raccontano quei cinque David di Donatello come migliore attrice protagonista (più altri quattro riconoscimenti speciali), tre Nastri d’argento, dodici Globo d’oro (di cui due alla carriera), un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia (nel 1995), un Orso d’argento alla Berlinale, una Concha de Plata a San Sebastián e una candidatura al premio BAFTA. Eppure i suoi genitori non avrebbero voluto, chissà perché: «I miei genitori non hanno mai condiviso la mia scelta. Un giorno mia madre mi disse: "La polvere del palcoscenico corrode l’anima e il corpo"».

In redazione tutti dicono che “era Alberto Sordi al femminile” per il suo legame con la città e per quell’ironia che li accomunava. La fondazione intitolata ad Albertone ha un pensiero davvero bello per lei. Con Sordi «hanno regalato agli italiani la sensazione che fossero fatti per recitare insieme». Anche se non furono molti i film interpretati da loro. Ma come dimentichi «Amore mio aiutami» e «Polvere di stelle», assieme ad uno straordinario »Io so che tu sai che io so»… Commedia e dramma che viaggiavano assieme; ridere sì, ma anche tanta capacità di far riflettere chi guardava la pellicola senza staccare gli occhi dallo schermo. 

In «Amore mio aiutami» la volle proprio Sordi, che ne fu anche regista. Lei doveva esserne e fu la coprotagonista. Lei, conosciuta fino ad allora nel cinema colto ed impegnato di Michelangelo Antonioni - che ne era stato anche compagno di vita - diventava altro dal dramma con cui interpretava i suoi personaggi e si trasformava con un nuovo modo di stare sul set, legata ad un cinema più scanzonato e leggero. E diventò una celebrità anche dal lato umoristico, una vera mattatrice della commedia all’italiana. Ne raccontava il motivo con queste parole: «Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita».

Quel film voluto da Alberto Sordi era un film che raccontava, in un contesto di grandissima qualità ironica, del dramma della coppia che si dissolve. Rideva di una tragedia che restava tale e che si trasformava in diritto nella società italiana con la legge sul divorzio. Vivendo con tristezza però: «Nella mia vita non sono mancate le lacrime: lacrime copiose e liberatrici, lacrime di tristezza, di sconforto, di solitudine, di stanchezza. Si, ho riso e pianto molto».

Ce ne sono di film da raccontare, anche con altri Grandi, basti pensare a «La ragazza con la pistola», come a «Dramma della gelosia». Ma quello più triste è quello mai girato e che riguarda la fine di una carriera che ha saputo onorare l’arte del cinema in tutto il mondo. L’Alzheimer non ha perdonato Monica Vitti, ce l’ha sottratta per una ventina di anni, gli ultimi della sua bella esistenza.

Dal marzo del 2002 fece perdere le tracce di sé in pubblico, povera e grande donna, quando presenziò alla prima italiana di «Notre-Dame de Paris»; nei mesi successivi fu fotografata in giro per le vie di Roma e poi a Sabaudia in compagnia del marito. 

Poi, più nulla. Non faceva più notizia Monica Vitti, se non per quelle voci sulla sua salute che ogni tanto si affacciavano tra i «bene informati». In realtà, anche allora c’erano le fake news che la volevano ricoverata in chissà quale clinica straniera.

Era la malattia degenerativa ad averla costretta ad abbandonare le scene. Ha raccontato il marito, fotografo e regista: «Ci parliamo con gli occhi. Ha una malattia tipo Alzheimer che si infiltra e sbriciola la memoria». Terribile. Nessuna clinica, né al nord né all’estero, come si ostinavano a scrivere cronisti che dovevano far sapere di essere al corrente di tutto. No, l’attrice è rimasta in casa col marito e una badante fino al momento dell’addio.

«Prendeva per mano il pubblico e lo portava dove voleva», lo ha scritto in sua memoria Enrico Ruggeri ed è la frase più bella che le si potesse donare in memoria. «Non mi poso mai sulle parole, ma sulle emozioni». E stavolta ha emozionato noi.

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