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Sgambetto a Big Pharma: Biden concede i vaccini a tutti. E l'Italia compie un passo rischioso

Franco Bechis
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Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sta per tirare una brutta botta a Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson, le tre aziende americane che insieme ad AstraZeneca hanno il dominio delle vaccinazioni contro il Covid. Entro poche ore annuncerà infatti il cambio di posizione degli Stati Uniti sulla protezione dei brevetti vaccinali e l'intenzione di sospendere la proprietà intellettuale di quelle aziende in modo di consentire a tutto il mondo la produzione di massa di quei vaccini. Il primo passo è arrivato ieri da parte della rappresentante della amministrazione Biden all’interno del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Katherine Tai ha annunciato infatti che «L’amministrazione crede fermamente alle protezioni della proprietà intellettuale ma per mettere fine a questa pandemia sostiene la revoca di certe protezioni per i vaccini anti Covid-19». L’ufficializzazione della posizione americana non ha provocato al momento uno scossone a Wall Street, dove i titoli interessati sono restati per qualche minuto inebetiti, anche perché per la sospensione vera e propria occorre un accordo largo all’interno dello stesso Wto. Ma ad avere spinto a questo passo è stato il pressing internazionale per la disastrosa situazione del Covid in India e anche la crescente coscienza dell’inutilità di vaccinazioni di massa nei paesi più ricchi se poi il virus circola liberamente in quelli più poveri, che inevitabilmente poi lo esporterebbero.

 

Mentre dagli Stati Uniti arriva questa vera e propria bomba sul mercato dei vaccini, l’Italia di Mario Draghi compie un passo assai rischioso che sembrerebbe andare in senso opposto: su richiesta del Comitato tecnico scientifico si sta per raddoppiare il tempo che passa fra la prima e la seconda dose somministrata dei vaccini Pfizer e Moderna. Il tempo oggi previsto (21 giorni per Pfizer e 27 per Moderna) sta per essere portato a 42 giorni, con una scelta che in qualche modo riecheggia il rischio che si è preso Boris Johnson in Gran Bretagna con AstraZeneca. Il motivo è lo stesso di quello inglese: nonostante i tanti sforzi fatti e qualche promessa evidentemente azzardata il ritmo di vaccinazioni in Italia è cresciuto meno di quel che era stato preventivato. Il raggiungimento di quota 500 mila dosi è stato ottenuto solo per due giorni a fine aprile, poi siamo scesi di nuovo e non di pochissimo. La sensazione è che fra forniture a singhiozzo e difficoltà di tenere alle redini 19 Regioni e 2 province autonome il governo punti ad alzare il numero dei vaccinati con la prima dose a scapito di quello di quelli con entrambe le dosi.

 

D’altra parte è venuta meno anche la spinta che avrebbe potuto dare Johnson & Johnson grazie alla sua monodose e si è voluto correre in qualche modo ai ripari. Per farlo l’Italia si poggia sull’invito arrivato il 21 gennaio scorso dall’Organizzazione mondiale della Sanità, che spiegò: «Non esistono attualmente dati sull’efficacia a lungo termine per una singola dose del vaccino Mrna Pfizer-BioNTech, poiché i partecipanti allo studio hanno ricevuto 2 dosi con un intervallo tra le dosi nello studio che va da 19 a 42 giorni. Da notare, le risposte anticorpali neutralizzanti sono modeste dopo la prima dose e aumentano sostanzialmente dopo la seconda dose. I paesi in cui si verificano circostanze epidemiologiche eccezionali possono considerare di ritardare per un breve periodo la somministrazione della seconda dose come approccio pragmatico per massimizzare il numero di individui che beneficiano di una prima dose mentre l’offerta di vaccino continua ad aumentare. La raccomandazione dell’OMS al momento è che l’intervallo tra le dosi possa essere esteso fino a 42 giorni (6 settimane), sulla base dei dati degli studi clinici attualmente disponibili (...) I paesi dovrebbero garantire che qualsiasi adeguamento del programma di questo tipo agli intervalli di dose non influenzi la probabilità di ricevere la seconda dose».

 

Ma quella dell’Oms era una scelta pensata globalmente e basata sulla difficoltà di approvvigionamento dei vaccini. Non esattamente condivisa dagli scienziati, perché in realtà non sono stati pubblicati studi clinici sugli effetti di una seconda dose somministrata dopo 42 giorni invece dei 21 o 27 raccomandati e nella sperimentazione delle varie fasi del vaccino sono pochissimi i casi in cui la seconda dose sia stata somministrata con tale ritardo: così ridotti (circa l’1%) da non avere pubblicato nessuna analisi approfondita.

Un rischio questa decisione invece sicuramente comporta, ed è quello sui pazienti fragili per cui la vaccinazione potrebbe dare copertura ancora più ridotta dell'attuale. Il Cts infatti cita una immunizzazione all’80% a partire da due settimane dopo la prima dose di Pfizer e Moderna, ma questo è vero solo per i pazienti che non hanno comorbilità gravi. Per i pazienti oncologici ad esempio la copertura accertata da studi già pubblicati è intorno al 51% con la prima dose e intorno al 72% dopo la seconda. Spostarla di altre due settimane li metterebbe fortemente a rischio. Proprio su Lancet il 27 aprile scorso è stato pubblicato uno studio effettuato dal King’s College di London sulla efficacia del vaccino Pfizer sui pazienti oncologici. E il risultato è stato deludente: «Nei pazienti con cancro, una dose del vaccino produce una scarsa efficacia. L’immunogenicità è aumentata in modo significativo nei pazienti con cancro solido entro 2 settimane da un potenziamento del vaccino al giorno 21 dopo la prima dose. Questi dati supportano la definizione delle priorità dei pazienti con cancro per una seconda dose precoce (giorno 21) del vaccino Pfizer». Stesso risultato sta offrendo uno studio assai più esteso nel campione che si sta svolgendo a Roma. Bisogna che la decisione del Cts escluda subito tutti i pazienti fragili.

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