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Più di mille negozi chiusi nel centro di Roma. Campidoglio inerme davanti alla crisi delle vetrine

Damiana Verucci
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Cambia con sempre più rapidità il volto storico di Roma. Al posto delle botteghe, degli artigiani, dei negozi a marchio noto, della ristorazione di livello, arrivano franchising il cui unico obiettivo è quello di vendere sottocosto ad un pubblico spesso giovane, che rincorre più lo sconto che la qualità oppure finti outlet o ancora esercizi che si «spacciano» per alimentari, ma che vendono cibi surgelati o precotti. È così che le serrande di marchi conosciuti, costretti invece ad arrendersi alla crisi, alla pandemia, alla mancanza per oltre due anni di turisti, si abbassano una ad un una ed è un rincorrersi di vendesi e di affittasi che non conosce battute di arresto. Di fronte a privati costretti ad arrendersi l'Amministrazione si dichiara il più delle volte impotente: niente eventi per spingere lo shopping, una Ztl che resta immobile e che i commercianti additano come tra le principali responsabili della mancanza di acquisti da parte dei romani, ma soprattutto scarsa visione del futuro per questa città mentre gli affitti continuano a salire e i locali diventano sempre meno appetibili da parte di chi vuole fare impresa.

 

 

È sufficiente fare una passeggiata in centro per rendersi conto. Certo, la pandemia ha dato il colpo finale, ma già prima la sofferenza in molte zone anche rinomate, era tangibile. In via Frattina, ad esempio, stando ad alcune stime delle associazioni di settore, il 15% dei negozi ha chiuso i battenti e probabilmente non li riaprirà. Da piazza della Repubblica a piazza Venezia, una quarantina di attività su circa 130 hanno chiuso. E poi ci sono strade simbolo come via Veneto, una volta Dolce Vita ora quasi del tutto abbandonata e dove ieri è suonato alto, tra gli altri, il grido d'allarme del padre del Bagaglino, Pingitore, che ha detto «torni a rianimarsi la via più celebre e ammirata di Roma». Confartigianato Roma ha analizzato in modo ancora più analitico la situazione del centro partendo proprio dai numeri e la fotografia che ne esce è a dir poco preoccupante. Tra gennaio 2020 e febbraio 2022, il solo comparto del commercio ha detto addio a 670 attività, vale a dire il 15% del numero complessivo delle imprese, si è passati infatti da 4446 a 3776 piccole imprese.

 

 

La manifattura, già piuttosto compromessa anche prima della pandemia, si è ulteriormente ridimensionata passando da 1680 a 1311 imprese, vale a dire 369 attività in meno e una perdita record del 21,9%. Non va meglio per la ristorazione che pure ha perso meno di altri comparti ma peggiorando di sicuro la qualità: meno ristoranti di un certo livello, più street food tra pizzerie a taglio, kebbaberie, paninoteche e via dicendo. Dunque la ristorazione, nello stesso arco temporale considerato, si riduce di 47 unità e passa da 2.110 esercizi a 2.063, ovvero il -2,2%. Ma anche il settore alberghiero non rischia meno. L'alloggio tradizionale, con gli alberghi, perde 39 strutture pari al 5,1%, mentre gli affittacamere, nonostante la pandemia, crescono di 42 unità (da 1408 a 1450), il che la dice lunga sulla trasformazione in corso. Un trend diverso, in questo caso migliore, riguarda i laboratori artigiani, unica nota positiva della ricerca, che crescono seppure di non molto (solo 4 unità) passando nella ristorazione da 253 a 257 laboratori, ovvero + 1,9%. C’è poi il settore dei servizi alla persona (acconciatura, estetica, tatuaggi) che si riduce di 29 unità (da 618 a 589): -4,6%. Di questo passo si rischia una vera e propria desertificazione di attività storiche e di appeal.

 

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