
Pd, vertice dei ribelli contro la linea Schlein sui referendum. E lei prepara le purghe

Tra l’incudine e il martello. Con la segretaria che minaccia di cancellarli dalle liste elettorali e Matteo Renzi che li sfotte: «Mi colpiscono i miei amici riformisti del Pd, cui la segreteria ha detto, o votate sì o non avete spazio nelle liste». È la vita complicata della minoranza dem, alle prese con i cinque referendum dell’8 e 9 giugno. Così lunedì sera la corrente si è riunita in gran segreto per trovare una via d’uscita: un compromesso tra le esplicite intimidazioni del Nazareno e il comportamento parlamentare tenuto negli anni del renzismo.
"Non votare è un diritto". Pd smemorato sul referendum, la campagna dei Ds che smaschera la sinistra
Una responsabilità che accomuna anche altre anime del partito: Andrea Orlando e Antonio Misiani per la sinistra, i franceschiniani, i “turchi” di Matteo Orfini, persino la “ditta” di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza. In pratica, tutti quelli che benedissero l’abolizione dell’articolo 18. Alla fine, il compromesso suona così: votare sì solo ai quesiti su cittadinanza e responsabilità dell’impresa committente; non votare o votare contro gli altri tre, quelli sul Jobs Act (licenziamenti illegittimi, indennità nelle piccole imprese, contratti a termine). Ma senza fare rumore. Anzi, con un’unica regola di sopravvivenza: non disturbare il manovratore, ovvero la segretaria, che ha chiarito che il Pd parlerà con una sola voce. La sua. O meglio: quella di Maurizio “il rosso”, il leader della Cgil e regista unico della campagna. Il più alto in grado della minoranza, Alessandro Alfieri, dall’alto del suo incarico in segreteria, ha provato a spiegare in modo felpato l’impiccio: “Il Jobs Act erano otto deleghe, alcune non sono state attuate, alcune hanno funzionato, altre no. È evidente che serva un tagliando. Io penso che la strada sia il Parlamento”.
Peccato che sia andata diversamente: Elly Schlein si è subito schierata con Corso Italia, prima firmando i referendum, poi guidando la campagna elettorale. Non tanto per vincere (il quorum è utopia), ma per contarsi: il Pd punta a superare i 10 milioni di voti, sogna i 12. Quanti ne prese il centrodestra nel 2022.
In questo clima di subbuglio, i riformisti rischiano di passare come renitenti. E gli avvertimenti sono stati chiari: «Le politiche sono vicine». Nei sogni di gloria della segretaria — fresca quarantenne — c’è ottobre: elezioni regionali in Val d’Aosta, Veneto, Toscana, Marche, Campania, Puglia. Dove spera di battere ai punti Giorgia Meloni. Con questo viatico, il congresso anticipato del 2026 non è più fantapolitica.
Andrea Orlando, esule in Consiglio regionale ligure dopo il tracollo, scalpita: «Abbiamo l’opportunità di farlo ora, senza il condizionamento di appuntamenti elettorali: facciamolo». Il congresso, per gli strateghi del terzo piano del Nazareno, è la saldatura definitiva del campo largo. La riedizione — aggiornata e corretta — della disastrosa “macchina da guerra”.
L'ultima crociata delle toghe rosse: dichiarare guerra al Jobs Act
Un amore eterno giurato a Giuseppe Conte e al duo Bonelli-Fratoianni, con la promessa di aver finalmente risolto il problema di quella minoranza europeista, considerata insopportabilmente moderata e atlantista. Elly, fino all’ultimo, spera di non essere costretta a fare primarie di coalizione, per questo conta di tenersi il Rosatellum. Esattamente l’opposto del quasi amico del M5S, che pensa di essere più scaltro e competitivo della segretaria Pd. E di aver “seminato” meglio, costringendo di fatto il partito alleato a seguirlo sulla linea “pacifista”. La “volpe” di Volturara Appula scommette sul “nemico”, la minoranza dem: sfibrare la “quarantenne”, con distinguo continui. Per indebolirla, naturalmente, ed apparire come l’unico vero condottiero del campo largo. Insomma tra calcoli, congiure, illusioni: benvenuti nella “House of cards” del Nazareno.
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