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Giorgia Meloni stia attenta ai "fake liberal"

Luigi Bisignani
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Caro direttore, non ci sono più i liberali di una volta. E, dopo l’appropriazione culturale, ora è arrivata l’appropriazione liberale. Peraltro, con più varianti del Covid-19. Perfino una tosta come Giorgia Meloni ha aperto le porte di Palazzo Chigi. A Carlo Calenda che adesso si professa «liberal socialista», facendo un po’ ridere quando parla di «convergenza tra marxismo e liberismo ideologico». Dall’incontro con il presidente del Consiglio c’era d’aspettarsi qualche uscita delle sue e infatti ha dichiarato: «Buona chimica con Meloni», «l’ho trovata preparata», trattando la premier come una scolaretta. Finirà che «liberal socialista» Calenda porterà più problemi che voti al centrodestra. Dall’elenco di chi li chiama «liberali dopo le sei» certo non manca «Giuseppi» Conte, l’omino per tutte le stagioni, fino a poco tempo fa vantava un «approccio liberale» sulla questione dei vaccini obbligatori. E ancora, se uno come Stefano Bonaccini, in piena corsa per la segreteria del Pd ragiona, forse a sua insaputa, da «ordoliberista» - una variante del pensiero liberale nata e sviluppata dalla scuola economica di Friburgo - «auspicando l’autonomia delle regioni ma non senza definire i livelli essenziali delle prestazioni», il quadro è completo.  Ma i liberali, quelli veri, da Cavour a Croce e Einaudi si stanno rivoltando nella tomba.

Tuttavia, senza andare troppo indietro nel tempo, anche il rimpianto Antonio Martino, già ministro della Difesa e degli Esteri - figlio di Gaetano, uno dei padri dell’Europa - al quale Nicola Porro ha dedicato il suo ultimo saggio «Il Padreterno è liberale» (Piemme Editore), uscito da pochi giorni, non sarà contento dell’autocelebrativo abuso che questi personaggi fanno del liberismo. Tutti loro, almeno per capire di cosa parlano, dovrebbero leggere, tra un tweet e un storia su Instagram il libro di Porro. Ma anche quelli che sanno cos’è il liberismo, come Guido Crosetto, che lo mastica da sempre, tra le pagine troveranno spunti e conferme. E i liberali, quelli di vecchia militanza lo ameranno. Per ora però sono sempre più infuriati, a maggior ragione per il fatto che coloro che ora succhiano le loro idee parlano a sproposito di Terzo Polo e fanno convegni nei fine settimana dagli agghiaccianti titoli: «Milano Liberal Forum 22», con Elsa Fornero e Sandro Gozi.

 

 

 

Tutto a conferma del caos che regna sovrano nell’attuale scenario politico italiano, dove in troppi si riempiono la bocca della parola «liberale», aggiungendo a turno una variante diversa come «progressista», «democratico», «riformista». Lo Stato liberale garantisce diritti civili, libertà e diritti fondamentali (in diversi gradi rispetto alla situazione politica dello Stato in questione). Ed è proprio su questi principi fondamentali che Porro ha voluto rendere omaggio ad un galantuomo d’altri tempi, la cui coerenza e pensiero politico non hanno mai fatto sconti a nessuno, neanche quando si è trattato di votare, dieci anni fa, contro il «Fiscal Compact» poiché già sapeva che si stava cedendo una bella fetta di sovranità economica all’Ue. «Sui dettagli si può transigere, si può mediare, ma guai a farlo sui principi», diceva, confermando che «il liberalismo è prima di tutto un principio di vita umana. I liberali sono sempre esistiti, dal tempo dell’uomo delle caverne» e non moriranno mai: uno dei pensieri clou di Martino, professore di Economia Politica alla Luiss e, prima ancora, allievo prediletto di Milton Friedman all’Università di Chicago. E ancora: «Lo Stato nella visione liberale si deve occupare della gestione di poche e fondamentali questioni, come la sicurezza, la difesa, la politica estera. Ma il resto, soprattutto l’economia, deve essere lasciato a briglia sciolta, anzi scioltissima, pena l’immobilità».
Il libro aiuta a sgomberare il campo dai «fake liberal» offrendoci un vero e proprio «affresco» di pensieri e riflessioni di Antonio Martino, liberale dentro e fuori, arricchito da ricordi personali dell’autore, che fu suo portavoce alla Farnesina. Non mancano aneddoti su Silvio Berlusconi, di cui lo stesso Martino ricorda di essere stato una sorta di «pusher» di idee, registrate in ben nove delle undici videocassette del kit per il candidato di Forza Italia. E di come la carta vincente della linea politica di Forza Italia fu proprio il liberalismo, che però poi si è perso tra lotte di clan sempre più selvagge all’interno di un partito diventato il terreno di battaglie infuocate degne della Casa (ad Arcore) del Grande Fratello. E visto che, come diceva Andreotti, la riconoscenza è il sentimento della vigilia, Martino, nel saggio di Porro, ricorda anche l’irriconoscenza verso Berlusconi di Indro Montanelli e il suo «Il Giornale» fondato nel 1974, con il quale collaborò a lungo, definito «un giornale libero più che liberale», finanziato per anni dal Cavaliere, uno dei pochi editori che davvero non ha mai messo bocca sulle scelte dei suoi manager o dei suoi direttori. La conversazione schietta e intima tra il giornalista e il politico da poco scomparso spazia anche su temi più recenti del Martino-pensiero, come l’invasione delle piccole libertà quotidiane con i vari lockdown e l’antipopolare posizione sull’ambientalismo, «una bestia tremenda», perché «camuffato da buono». Martino, da ministro degli Esteri, ha portato sempre in alto l’Italia e quando la Thatcher gli disse: «Antonio, voi vivete in un paese bellissimo, ma governato malissimo», lui le rispose con la sua tipica prontezza siciliana: «Mia cara signora, il contrario sarebbe decisamente peggio». Per tornare ai giorni nostri l’invito alla premier è: «Non ragionar di Calenda, ma guarda e passa».

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