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Elezioni 2022, Letta attacca Meloni ma imbarca gli anti-Nato

Carlantonio Solimene
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Che poi bisognerebbe mettersi d'accordo. O Giorgia Meloni è una pericolosa antioccidentale, amica di Orban e di conseguenza di Putin. Oppure è un cagnolino al guinzaglio della Casa Bianca. Impossibile sia le stesse due cose contemporaneamente. Eppure ieri le sono state rivolte entrambe le accuse. La prima dal leader del Pd Enrico Letta, la seconda dal capo politico del M5S Giuseppe Conte. Due esponenti che, dal punto di vista dellapolitica estera pure avrebbero pure qualche spiegazione da dare. Ma ci si arriverà dopo.

 

Meglio partire dal principio. Ovvero dall'intervista che Giorgia Meloni ha concesso a Panorama. Dicendo, tra le altre cose, che «noi vogliamo un'Italia saldamente nella Nato. Questo non ci impedisce di lavorare per un'Alleanza più equilibrata, che sia protagonista di pace, sicurezza e stabilità mondiale e che tenga a bada certi avventurismi tipici dei Democratici americani». Avventurismi sintetizzati nella critica alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan, che «rischia di dare alibi alla Cina».

 

Parole che, evidentemente, hanno turbato Letta. Che le ha commentate così: «Meloni sta cercando di cambiare immagine, di incipriarsi, ma a me sembra una posizione molto delicata, se i punti di riferimento sono Orban e il decalogo di Vox».

Meloni ha risposto accusando Letta di «misoginia» per il riferimento alla cipria. Ma avrebbe potuto replicare che anche Letta avrebbe bisogno di un po' di cipria, per lo meno per nascondere il fatto che, nella sua coalizione, sono stati stesi tappeti rossi per accogliere chi, senza tanti giri di parole, si definisce antiatlantista. Come quel Nicola Fratoianni che è stato tra i pochissimi in Parlamento a votare contro l'ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. E che ha fatto inserire, nel patto firmato col Pd, un «taglio della spesa militare» che con l'Agenda Draghi tanto osannata al Nazareno c'entra assai poco.

 

Non finisce qui. Perché, come si diceva, Giuseppe Conte la vede all'opposto del suo ex alleato. E, volendo sedurre la galassia antagonista, ha rivendicato: «Io non prendo ordini da Washington, io sono leale con tutti i nostri alleati ma io difendo i nostri interessi in modo vero. Non faccio come Meloni che va a Washington e si va a raccomandare per cercare di governare, e poi parla sempre di interesse nazionale». Parole nette, lapidarie, da leader. Peccato che, a chi conservi un po' di memoria della storia recente, suonino un po' inopportune. Perché Giuseppe Conte è colui che, da presidente del Consiglio, autorizzò in maniera irrituale gli 007 americani a entrare nel Paese a cercare prove della presunta partecipazione di un suo predecessore, Matteo Renzi, all'ancor più presunto Russiagate ai danni di Donald Trump. Il fatto poi che, di lì a qualche settimana, dalla Casa Bianca arrivò l'endorsement al «the hightly respected Prime minister of the Italian Republic, Giuseppi Conte» è naturalmente del tutto casuale. Così come il leader dei grillini ignora le polemiche scaturite quando con eccessiva leggerezza lasciò che la missione russa in Italia in tempi di Covid, da sanitaria che doveva essere, rischiò di trasformarsi in un atto di spionaggio militare. Sarebbe giusto oggi accusarlo di aver preso ordini di volta in volta dalla Casa Bianca e poi dal Cremlino nella corsa sfrenata ad accreditarsi in quelle cancellerie estere dove all'epoca non lo conosceva ancora nessuno?

Probabilmente no. Perché la politica estera, di certo punto nodale di questa campagna elettorale, è materia complessa, che poco si presta a semplificazioni e slogan. Specie se chi li pronuncia ha più di uno scheletro nell'armadio da far dimenticare. Sarebbe il caso che tutti, a destra e sinistra, lo tengano presente.

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