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L'ammissione di Mario Draghi: l'agenda non c'è. Il cimitero dei “piani” perduti

Carlantonio Solimene
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I giornalisti rimpiangeranno Mario Draghi a lungo. Perché la sua idiosincrasia ai giri di parole e ai panegirici inconcludenti (alla Conte, per intendersi) ha regalato titoli meravigliosi. Dall'«Erdogan dittatore» al «me lo trovo da solo un lavoro» fino al «se non ti vaccini, muori». Così anche nell'ultima occasione in cui il premier si è presentato alla stampa, non sono mancate chicche di crudezza. Tra le quali sicuramente la risposta alla domanda sulla fantomatica «Agenda Draghi». «Non so cosa sia» ha ammesso. Salvo poi sforzarsi un po' e ipotizzare che la sua eredità possa sostanziarsi nel «mix di credibilità e risposte tempestive ai problemi». Più metodo che merito, insomma. Citando peraltro una qualità, la «credibilità», che è inscindibile dalla sua figura. Ipotizzare un'Agenda Draghi senza lo stesso Draghi è, insomma, un ossimoro. Con buona pace dei vari Calenda, Letta, Gelmini etc. Che poi, a voler esercitare un po' di memoria, il centrosinistra avrebbe dovuto guardarsi bene dall'evocare la miracolistica «Agenda». Non fosse altro che per scaramanzia.

 

 

Chiunque, negli ultimi 15 anni, abbia provato a offrire al Paese un documento di rilancio più o meno articolato, ha visto la propria stella eclissarsi rapidamente. I cimiteri, recita il proverbio, sono pieni di persone indispensabili. E, aggiungiamo noi, anche di agende programmatiche. Prendete quella che, quatto quatto, Corrado Passera propose a Giorgio Napolitano nell'estate 2011, in piena crisi dello spread. Quasi 200 pagine che avrebbero dovuto costituire l'ossatura del programma dell'imminente governo Monti. Ma che, a causa dei rapporti non idilliaci di Passera con il Prof, finirono immediatamente nel cestino. La carriera politica dell'ex banchiere non si riprese più, incartata in un partito personale - Italia Unica - che non riuscì a prendere parte neppure a un'elezione. E che dire del corposo dossier che i «dieci saggi» consegnarono allo stesso Napolitano nel 2013? Il senso dell'operazione lo svelò il costituzionalista Valerio Onida, quando ingenuamente ammise che il loro compito era solo guadagnare tempo per permettere a Pd e Forza Italia di trovare l'intesa sul governo Letta. E così tutte le riforme ipotizzate (c'era pure il superamento del bicameralismo perfetto) finirono rapidamente nel dimenticatoio. Nel frattempo, come detto, a Palazzo Chigi si era insediato il buon Enrico. Che, dopo un annetto soporifero, si ritrovò sotto attacco del neosegretario Pd Matteo Renzi. E, d'incanto, palesò una grinta insospettabile. Convocò i giornalisti e mostrò loro una pila di fogli dal solito ambiziosissimo titolo: «Impegno Italia». Cinquanta punti che prevedevano investimenti da 30 miliardi in due anni. Era il 12 febbraio 2014. Il giorno dopo, a causa del voto contrario della Direzione Pd, salì al Quirinale per dimettersi. E anche di «Impegno Italia» non si parlò più.

 

 

In tempi più recenti si può citare il «piano Colao». Successe che nel 2020 il premier Giuseppe Conte si inventò l'ennesimo comitato per programmare il futuro del Paese. L'ex ad di Vodafone la prese sul serio e se ne venne col corposissimo tomo «Iniziative per il rilancio - Italia 2020-2022», una raccolta di 102 proposte che Giuseppi, inebriato dai casaliniani deliri di onnipotenza, semplicemente ignorò. Tanto da dedicare al povero Colao solo un rapido e furtivo passaggio nei pomposi Stati generali dell'estate 2020. E così siamo all'oggi, all'Agenda Draghi che, in realtà, non c'è. Perché Supermario è tutto fuorché uno sprovveduto. E più che ad avveniristici piani per il futuro del Paese, ne ha in mente un altro, di futuro. Il proprio.

 

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