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Il primo Movimento 5 Stelle non esiste più. Alessandro Di Battista in Russia, Roberto Fico contro Luigi Di Maio

Carlantonio Solimene
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Alla fine la «notizia» del giorno, nel diario dello psicodramma a 5 stelle, non è certo né l'esito del Consiglio nazionale convocato da Conte né l'estremo tentativo di Beppe Grillo di tacitare i litiganti. Sta, piuttosto, nelle parole sorprendentemente dure pronunciate da Roberto Fico nei confronti di Luigi Di Maio. Perché spezzano l'ultimo anello che teneva insieme la catena di comando del Movimento 5 stelle al suo debutto nel Palazzo. All'epoca, è vero, chi tirava i fili erano Grillo e Gianroberto Casaleggio. Poi, però, dall'indistinto magma che si agitava in Parlamento, tra giovanotti di belle speranze e semisconosciuti destinati a rimanere tali, emersero loro: i tre. Ovvero Luigi Di Maio, Roberto Fico e Alessandro Di Battista. Tre storie che più diverse non si poteva: il leaderino in doppiopetto, l'antagonista da centro sociale e l'arruffapopolo di Roma Nord. Eppure perfetti, una volta messi insieme, nell'impersonare quello che il Movimento voleva essere: un po' Palazzo un po' piazza, ideali e pragmatismo, okkupazioni e ministeri.

 

 

Ora, per chi segue la politica, era fin troppo facile pronosticare che l'idillio non sarebbe durato a lungo. Persino tra i profeti dell'«uno vale uno» fu presto chiaro che uno sarebbe valso più degli altri. E quel ruolo toccò a Di Maio. Vicepresidente della Camera, membro del Direttorio, capo politico, vicepremier e pluriministro. C'è davvero poco che, a soli 35 anni, Giggino non abbia fatto. Eppure, nonostante l'ascesa del ragazzino di Pomigliano, inizialmente l'asse a tre - e l'amicizia, si vociferava - non era venuto meno. Anzi, quando Di Maio si era trovato in difficoltà - il caso Quarto o la mail della Raggi «non capita» - i tre si erano fusi come una testuggine, con Fico e Di Battista pronti a correre in soccorso dell'amico, pronti a mettere per lui la mano sul fuoco. Il potere, però, logora tutto. Ed è triste constatare come oggi, con i rapporti ridotti a zero, vengano fatti filtrare retroscena che mostrano come la presunta amicizia fosse in realtà solo una copertina edulcorata che nascondeva un libro fatto di invidie, rivalità, sgambetti. Con Di Maio che faceva saltare le votazioni per la leadership per impedire che Dibba si prendesse il Movimento. O Fico che otteneva che a coordinare la campagna di Manfredi a sindaco di Napoli ci fosse anche una sua fedelissima, Gilda Sportiello, accanto alla dimaiana Valeria Ciarambino. Quello che sorprende, dell'intemerata di Fico, è che arriva da un esponente mai propenso agli strappi. Reso addirittura più diplomatico di quanto già non fosse dal ruolo che ricopre, presidente della Camera. Un ruolo che, gli va dato atto, il deputato napoletano ha maneggiato con grandissimo rispetto dell'Istituzione, centellinando le uscite e senza mai parlare fuori posto.

 

 

Ecco, se la seconda carica dello Stato arriva ad attaccare il ministro degli Esteri mentre quest'ultimo è impegnato a Lussemburgo per parlare di guerra al Consiglio Affari Esteri, vuol dire che la misura era davvero colma. Meno di un anno fa Fico e Di Maio si misero in macchina alla volta di Marina di Bibbona per convincere pensate un po' - Grillo a ricucire con Conte. Ci andarono loro perché loro erano «il» Movimento. Il trait d'union tra quello che era stato - le visioni di Gianroberto Casaleggio - e quello che era diventato: le poltrone, il reddito di cittadinanza, la maggioranza Draghi. Ora, con il Dibba sperso nella Russia profonda a indagare le ragioni della guerra, si rompe anche l'ultimo asse rimasto. E quella storia, semplicemente, non esiste più. Si è aperta, piuttosto, un'altra pagina, totalmente nuova, fatta di casalinismi e pochette. Sarà solo il tempo a dire se sarà successo o, più probabilmente, farsa e tragedia insieme.

 

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