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Giuseppe Conte perde la pazienza contro i detrattori del M5s

Pietro De Leo
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Lo vedi con il volto contrito, il ciuffo leggermente fuori posto, la camicia senza cravatta, l’inquadratura stretta sul suo mezzobusto e uno sfondo essenziale, senza libri né quadri. E capisci che quel Giuseppe Conte, che intima i detrattori con un «la devono smettere» è ad una nuova versione di se stesso. Nel mondo politico orientato sulle immagini, è facile che si realizzi il brocardo di Walt Whitman: «Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini». Ed ecco che sì, Conte, di moltitudini ne contiene assai. E quella andata in diretta su Facebook, l’altroieri sera, dopo il duello con Draghi sulle spese militari, è l’ennesima versione.

Il Conte armato (di parole) che si prepara all’anno elettorale, stile «o la va o la spacca» visti la navigazione non proprio tranquilla della sua leadership e i sondaggi non proprio lusinghieri per il Movimento. Ma è comunque interessante descriverne posture e toni. C’è qualche scivolata nel farraginoso lessico del manuale da diritto civile («interazione più diretta», dice, per glorificare le doti dello streaming su facebook). C’è l’informalità nell’abbigliamento che richiama all’antiformalismo del Movimento prima generazione. E poi c’è, appunto, il battere i pugni sul tavolo che fa molto Roberto Da Crema. Perché, alla fine, in politica si vende sempre un prodotto. In questo caso, il prodotto cangia non solo il pigmento degli alleati (dal blu Lega al rosso della sinistra sino al multicolor attuale), ma pure sembianza.

Dunque torniamo al 2018. Quando Conte si presentò all’Italia, nel tentativo faticoso di fare un governo mettendo insieme Salvini e Di Maio, come Avvocato del Popolo. Espressione esteticamente realizzata. Avvocato, perché girava tra i palazzi in giacca, cravatta e borsa di pelle. Del popolo perché pigliava il taxi sapientemente davanti alle telecamere.

Poi si passò alla seconda fase, quella simil monarchica. Erano i mesi bui del Covid, con le conferenze stampa convocate a tarda sera dopo il tamburellare di rinvii dell’appuntamento per creare suspance negli italiani chiusi in casa. Era di morbida perentorietà. Ossimoro? No. Felpato nel linguaggio ma pronto a rasoiare chiunque gli facesse una domanda sgradita a suon di risposte che su «se vuole venga lei a fare questo lavoro». E le «bimbe di Conte» (dal gruppo Facebook di adoratrici) in sollucchero per quel machismo in cravatta e pochette. Poi, disarcionato da Palazzo Chigi, arriva un’altra fase. Quella del tavolino in piazza per annunciare una nuova avventura politica, e poi la sofferta conquista della leadership del Movimento 5 Stelle, dopo aver sfogliato la margherita se fare o non fare un partito tutto suo. Fino all’altro ieri, appunto. Quei pugni sul tavolo sono apparentemente un segno di riscossa. Ma forse, perché no, un modo per esorcizzare quel che è andato storto.
 

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