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I cinque errori di Salvini sul Quirinale. E quattro consigli non richiesti

Benedetta Frucci
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C’è un fattore prepolitico con cui Matteo Salvini, nella sua battaglia per il Colle, non ha fatto i conti e che ha determinato, più di altri, la débâcle: la convinzione di una presunta superiorità morale che attraversa la sinistra dal centro fino ai suoi estremi e che la porta a non riconoscere mai fino in fondo il valore di chi gioca nell’altra metà campo. Esiste poi una caratteristica profondamente politica del centrosinistra: una capacità strategica e tattica, un’intelligenza che ha saputo dimostrare soprattutto negli ultimi 10 anni, quando è riuscita a governare sempre pur quando era tecnicamente minoranza nel Paese. È dalla sottovalutazione prima di tutto dell’avversario, che nasce il primo grande errore del leader leghista.

 

Centrosinistra arroccato in trincea
Il centrosinistra ha dapprima fatto credere a Matteo Salvini che, sgomberando dal campo il nome di Berlusconi, l’unica vera fonte di preoccupazione degli avversari, consci delle sue capacità strategiche e da fantasista che ha dimostrato, concavo e convesso, sempre in grado di restare in sella nonostante tutto e tutti, avrebbero potuto accordarsi su un nome. Ha sbagliato a pensare che il problema fosse Silvio Berlusconi, il divisivo, l’impresentabile e non qualunque nome avesse, anche lontanamente, una connotazione di centrodestra. Salvini avrebbe dovuto capire che, disponendo di una maggioranza esigua, le strade percorribili erano due: o farsi kingmaker fin da subito di un nome apparentemente super partes, come quello di Mario Draghi, sottraendolo da un lato alla sinistra e dall’altro, distruggendo i piani elettorali di Giorgia Meloni, accordandosi prima del voto quirinalizio sulla formazione di un altro esecutivo, oppure portare avanti compatto il nome di Berlusconi fino al quarto scrutinio per poi lanciare la palla a Letta e mettere lui nelle condizioni di proporre nomi su cui, a quel punto, il leader leghista avrebbe potuto esercitare veti.

 

Così non è andata e dopo Berlusconi, sono cominciati i niet: Frattini il filorusso, la Casellati la sgrammaticatura istituzionale perché attuale Presidente del Senato- dimenticando il precedente Fanfani- e via così. Il centrosinistra è rimasto fermo, immobile, nella trincea, lasciando che Salvini sparasse tutte le cartucce a disposizione. Ha abbandonato ogni scrupolo, come si fa in guerra, ed è andato dall’attaccare il centrodestra per l’astensione in terza chiama ad utilizzare senza scuotersi lo stesso metodo ventiquattrore dopo, per affossare la candidatura di Elisabetta Casellati. Capolavoro tattico.

 

Partita giocata sul fronte sbagliato
Secondo errore: non distinguere fra la strategia elettorale e quella parlamentare. Salvini ha parlato troppo con la stampa, pensando di parlare ai suoi elettori, dimenticando che la partita del Quirinale, quando non si siede comodamente all’opposizione con una truppa ristretta di parlamentari come Giorgia Meloni, si gioca tutta nei palazzi. Lo ha fatto con la crisi del governo Conte I, lo ha ripetuto con l’elezione del Presidente della Repubblica.

Terzo errore: assumere il ruolo di guida del centrodestra, in una partita difficile da vincere. Quarto errore: fidarsi degli alleati. Di una Forza Italia in cui la dirigenza è distante anni luce dai gruppi parlamentari, ancora infuriati per l’uccisione prematura del leader Silvio Berlusconi. Si racconta che i voti arrivati al Cavaliere, siano di una piccola truppa di coraggiosi, un segnale alla dirigenza che li vorrebbe schiacciati sulla Lega, un moto d’orgoglio e di autonomia.

 

Di una Giorgia Meloni che aveva, come obiettivo della partita, le elezioni in primis e in secundis, l’affossamento di Matteo Salvini. Che poi sono in fondo la stessa cosa. Il giorno dello schianto di Elisabetta Casellati, non a caso, c’era un particolare attivismo di parlamentari Pd con i meloniani e chissà che qualche siluro non sia partito proprio da quelle fila.

Di un gruppo, quello di Toti e Brugnaro, che può sorgere solo se diventa parte di un polo centrista.
Quinto errore: il dialogo con Conte, leader solo sulla carta di un Movimento balcanizzato, mosso nelle sue scelte solo dal risentimento.
Errori e sottovalutazioni di un leader giovane, che ha ancora però cartucce da sparare.

La separazione dalla Meloni
Quattro consigli non richiesti: abbandoni le velleità sovraniste, lasciando a Giorgia Meloni le sue posizioni antivacciniste e le urla dal talk show. L’ala di ultradestra è già con lei e lo dimostra quell’eccesso di voti a Carlo Nordio, per cui si racconta che la dirigente di Fdi sia stata molto attiva fra le fila dei salviniani no euro. Si accrediti e comporti come un leader di una destra europea, guardando al modello gaullista e non a Marine Le Pen o Zemmour; ascolti, insomma, i consigli di Silvio Berlusconi e si faccia traghettare nel PPE. Infine, giochi d’astuzia: dia il via libera a una legge proporzionale, rendendo di fatto impossibile a Giorgia Meloni, qualora risultasse vincitrice delle elezioni, la premiership. Come? Proponendo che il prossimo parlamento sia un’assemblea costituente che vari, finalmente, il semipresidenzialismo. Con un governo magari a guida Draghi, che condannerebbe la sua avversaria a un’opposizione perenne. Non è cattiveria, ma strategia

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