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L'ultimo paradosso. Test di democrazia richiesto a Giorgia Meloni: usi il manganello

Riccardo Mazzoni
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Quando Bettino Craxi, presidente del consiglio, durante la replica al dibattito parlamentare sulla fiducia, pronunciò la famosa frase «intellettuale dei miei stivali» riferendosi alle critiche preconcette e ideologiche che gli venivano sistematicamente mosse da un pensatoio culturale vicinissimo al Pci, non immaginava che un giorno, 36 anni dopo, quel concetto avrebbe dovuto essere modificato in segno addirittura peggiorativo, ossia «intellettuale con gli stivali». Tale in effetti appare il professor Galli della Loggia, prestigioso notista del Corriere della Sera, che ha suggerito a Giorgia Meloni, per mondarsi definitivamente l’anima dai sospetti di collusione postuma col fascismo, di far manganellare dal suo servizio d’ordine, al prossimo comizio, chiunque di casa Pound o di gruppetti similari osi avvicinarsi alla sua piazza. Quello, insomma, che a suo tempo fece il Pci con la sinistra extraparlamentare.

 

 

 

Il professore dimentica che prima di arrivare a quella soluzione sbrigativa, ma in parte anche dopo, alcuni settori del Pci mantennero collegamenti sotterranei con quelle schegge politiche impazzite, fino ad ammettere che anche le prime Br facevano parte dell’album di famiglia. C’è comunque del vero nelle reminiscenze storiche di Galli della Loggia: quando nel 2001 Firenze fu inopinatamente scelta per ospitare il Social Forum, per evitare che si ripetessero le devastazioni di Genova dell’anno precedente, la sera prima della manifestazione finale gli eredi del Pci fecero confluire da Livorno i portuali livornesi della Cgil che nottetempo fecero una massiccia opera di convincimento preventivo nei confronti degli ultras no global, e tutto poi filò effettivamente liscio. Ma il fatto sorprendente è che il rimedio proposto dal professore alla Meloni è, come dire, politicamente omeopatico, visto che a suo parere i Fratelli d’Italia per togliersi di dosso il sospetto di nostalgie per il fascismo, dovrebbero mettere in pratica un motto a cui Mussolini ricorse molto spesso: «Dove c’è l’uso delle mani la parola è inutile».

 

 

Basterebbe questo colossale paradosso per chiudere con una scrollata di spalle una querelle così pretestuosa. Ma al fondo del ragionamento c’è una coazione a ripetere che le casematte culturali della sinistra non intendono abbandonare: il paradigma che caratterizzò la fase costituente della Repubblica per cui la democrazia italiana resta fondata sull’antifascismo, anche se il fascismo non c’è più da tempo, e non sull’anticomunismo: questa fu una necessità storica, perché la Costituzione fu scritta insieme al Pci. La sinistra italiana poi non ha mai fatto i conti fino in fondo con la sua storia: è sempre rimasta in cattedra a dispensare a suo insindacabile giudizio patenti di democrazia: successe a Berlusconi quando sdoganò il Msi, successe a Fini nonostante la svolta di Fiuggi e la sua scomunica del fascismo come il Male assoluto, e lo stesso accade ora per Salvini e Meloni, che per le loro legittime alleanze in Europa vengono considerati pericoli per la democrazia. Lo schema resta quello classico del leninismo, ed entrò in funzione già nel ’48: in democrazia il voto popolare non conta, conta soltanto la volontà di una ristretta élite che ha la facoltà di discernere il bene dal male e di guidare le masse nella giusta direzione al di là della loro stessa espressione di voto. Se la Meloni è cresciuta e aspira a governare, spetta a lei l’onere della prova antifascista. A costo di usare il manganello.

 

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