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Lo scambio di ruoli sulla giustizia grillina tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio

Riccardo Mazzoni
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Nel surreale mondo grillino può apparire stupefacente lo scambio di ruoli sulla giustizia tra Di Maio e Conte, ossia tra l’ex capo politico e il capo politico in pectore del Movimento, con il primo - un tempo gemello siamese di Di Battista - che si è pubblicamente pentito degli anni di odio giustizialista, chiedendo scusa al sindaco di Lodi assolto dopo anni di calvario, e l’ex premier che si è premurato quasi in tempo reale di ristabilire invece la rotta giacobina. Già, perché l’avvocato del popolo, dopo uno striminzito elogio di maniera alla svolta garantista, ha messo i puntini sulle “i” rivendicando in toto le politiche sciagurate del suo sponsor politico Bonafede, a partire dallo Spazzacorrotti, lanciando un segnale preciso ai naviganti della maggioranza e alla ministra Cartabia: sulla prescrizione infinita non sono possibili compromessi, perché i sacri principi non si negoziano, e nessuno provi a ipotizzare scorciatoie nel segno della “denegata giustizia” (come se non fossero proprio i processi a vita la più manifesta negazione della giustizia).

 

 

Un pronunciamento tutto teso a ricompattare i gruppi parlamentari già da tempo allo sbando e ancora più disorientati dall’ultima sortita di Di Maio. Ma la guerra sorda per conquistare la cabina di comando dei reduci a Cinque stelle promette nuove interessanti puntate prima della resa dei conti definitiva, che potrebbe sfociare in una scissione dall’esito assai sorprendente: Di Maio infatti è ormai un post grillino convertito al doroteismo che si candida a pilotare l’ala governista nel percorso di completa istituzionalizzazione del Movimento, mentre Conte, costretto ancora in sala d’attesa per gli inghippi politico-legali con Casaleggio, scalpita per incassare il promesso dividendo ed è impegnato per questo a cavalcare le originarie pulsioni identitarie, ponendosi come custode e garante dell’ortodossia grillina che ha nel suo dna la giustizia sommaria. Non a caso si è scagliato duramente contro il sottosegretario leghista Durigon, reo di una battuta infelice ma dato in pasto senza se e senza ma alla gogna di Facebook dal leader che avrebbe dovuto impersonificare il volto moderato del Movimento e che ora rincorre Di Battista. Uno scambio di ruoli, appunto, che se non si trattasse di giustizia, si presterebbe facilmente a una commedia degli equivoci di goldoniana memoria.

 

 

Commedia che si tramuta in farsa se ci mettiamo di mezzo il terzo incomodo, il Pd, che dopo aver plaudito alla strambata garantista del ministro degli Esteri, si trova ora a fare i conti con la controstrambata di Conte, il quale da punto di riferimento fortissimo del progressismo è diventato il riferimento politico del fondamentalismo giacobino. Un bel rompicapo per Letta, che dopo essersi esibito nell’acrobatica distinzione tra garantismo e impunitismo, ora si trova a dover scegliere tra Di Maio e Conte. Ma ancora peggio del segretario è messo Bettini, l’ideatore dell’alleanza strategica con i Cinque Stelle: “Sono stato uno dei promotori e difensori fino all’ultimo del governo Conte II e non me ne pento affatto – ha scritto sul Foglio commentando la svolta di Di Maio - eppure ho sempre manifestato un dissenso sulle posizioni del Movimento 5 stelle circa la giustizia. Oggi, forse, si può iniziare un dialogo più maturo e di reciproco ascolto”. Un auspicio, ironia della sorte, messo in forse proprio dal suo idolo, Giuseppe Conte. Ma il dialogo continuerà, non c’è da dubitarne: nel Movimento e nel Pd il garantismo infatti ha sempre il suono sordo di una moneta falsa.

 

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