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Non lo vogliono al Quirinale, Pd e M5s fanno lo sgambetto a Draghi

Pietro De Leo
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La suggestione «Draghi al Quirinale» ha accompagnato il confronto politico sin dalla nascita di questo governo. E al momento, il «mi riposerò» tra otto mesi pronunciato dall’attuale inquilino del Colle, Sergio Mattarella tira via dal tavolo quella che avrebbe potuto essere un’opzione percorribile, ossia una sua ri-elezione magari fino alla scadenza naturale della legislatura, sul modello di quanto (allora avvenne per un inchiodamento del quadro politico) si verificò nel 2013 con un Napolitano bis.

 

 

 

Fattore D, quindi. Matteo Salvini è il leader che più ha esplicitato l’eventuale sostegno all’attuale Presidente del Consiglio, ma non è un mistero che il gradimento potrebbe essere trasversale. Soltanto che l’ipotesi non appare così automatica come possa sembrare. Innanzitutto sarebbe un inedito dal punto di vista istituzionale: un Presidente del Consiglio che sale direttamente al Colle più alto, con tutto ciò che comporta la gestione del governo fin quando non ne viene incaricato uno nuovo. Questo è il primo punto. L’altra questione, poi, riguarda lo scenario politico. Potrebbe sembrare difficile che la legislatura possa avere un prosieguo dopo l’eventuale elezione di Draghi al Quirinale. Al momento, infatti, già considerando la conflittualità che anima l’attuale compagine di unità nazionale e i problemi di leadership e assetti che hanno Pd e Movimento 5 Stelle, appare difficile che si possa ricostruire un’altra maggioranza su un altro nome.

Esiste tuttavia un potente fattore stabilizzante della legislatura, che si identifica nel taglio dei parlamentari: diverrà esecutivo nel prossimo rinnovo delle Camere, e dunque è legittimo che nell’attuale Parlamento ci sia uno spiccato spirito di autoconservazione. Considerando che, Fratelli d’Italia a parte e forse la Lega, tutti i partiti andranno incontro ad un dimagrimento delle proprie squadre di Camera e Senato. La questione potrebbe riguardare più che altro Pd e Movimento 5 Stelle, probabilmente più interessati a tenere Draghi a Palazzo Chigi visto che lo scenario del voto non sarebbe troppo agevole.

 

 

 

Un campanello di questo si è visto, ad esempio, qualche giorno fa a L’Aria che Tira su La7, dove a domanda specifica sul punto della conduttrice Myrta Merlino ad Alessia Morani, quest’ultima è apparsa in difficoltà. Comunque la situazione è in generale molto fluida e ancora fumosa, e lo si evince parlando con alcuni parlamentari. L’atteggiamento è ancora quello di "wait and see", sia sul futuro di Draghi, sia su quello della legislatura. Emanuele Dessì, ex pentastellato che ora siede nel gruppo Misto al Senato, per esempio, non esclude totalmente l’addio di Mattarella. «Mancano ancora tanti mesi – spiega - e "per il bene del Paese" si può anche cambiare decisione». L’eventualità Draghi non la esclude, ma tuttavia non la vede così solida come possa sembrare: «Un Presidente della Repubblica – osserva Dessì - deve essere una figura unificante. Invece Draghi mi pare abbia già delle difficoltà a tenere unita una maggioranza rissosa».

Dunque, nulla è scritto. Abbiamo rivolto la stessa domanda anche a Gianfranco Rotondi, democristiano di lungo corso e deputato di Forza Italia. Con Draghi al Colle finisce la legislatura? «Non è detto. La legislatura finisce quando le forze politiche decidono che non ha più futuro. Se sarà così, allora Draghi incaricherà una personalità per traghettare il Paese al voto». Altrimenti? «Altrimenti, se i leader di partito decidono che si deve andare avanti, si andrà avanti. Credo che in quel caso sarebbe incaricato un ministro dell’attuale governo, però dal profilo tecnico. Se la mission sarà economica, allora si tratterà di un ministro economico, se sarà di respiro più ampio, allora potrebbe trattarsi di Marta Cartabia. Se ci si concentrerà sulla legge elettorale, magari sarà la volta di Luciana Lamorgese». Il taglio dei parlamentari esercita un fattore stabilizzante? «Ogni compagine parlamentare, da sempre, ha l’istinto di portare a termine la legislatura. Ma sono i capi partito che decidono».

 

 

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