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Recovery senza certezze ma c'è l'aiutino di Bruxelles. A Draghi tutto è concesso

Luigi Bisignani
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Caro direttore, se fosse stato il malconcio Conte a firmare il Recovery Plan, la Commissione europea l’avrebbe immediatamente rispedito al mittente: nessuna certezza né sulla riforma della giustizia civile né sulla vera road map per le infrastrutture, fa notare l’alto funzionario del «direttorate-generalecfin» di Bruxelles che ha il dossier in mano e sta predisponendo il sistema a punti previsto per valutarne la bontà e ottenere così il disco verde comunitario.

 

Siccome però la firma è quella di Mario Draghi, per ora transeat. Anzi, ci manderanno addirittura un anticipo di 25 miliardi. Lo «strumento» - così viene definito nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il regolamento a cui gli Stati membri dovranno attenersi per portare avanti il «Green Deal europeo» - è molto chiaro, ma sarà in grado di rispettarlo la nuova governance del Pnrr appena varata dall’Italia? Essa prevede, per la realizzazione degli investimenti, una responsabilità diretta dei ministeri e soprattutto delle amministrazioni locali: dunque un’occasione enorme per migliorare effettivamente i territori, auspicando tuttavia che questa volta i fondi non finiscano nell’acquisto delle solite panchine, magari anch’esse con le rotelle o di fioriere di eco-design, seppur corredate dell’etichetta propagandistica di «rigenerazione urbana».

 

Da qui l’importanza delle elezioni amministrative del prossimo ottobre, per capire dove stiamo andando. Le 4 aree metropolitane di Torino, Milano, Roma e Napoli chiamate al voto contano circa 20 milioni di abitanti e, come si è detto, saranno fondamentali per l’esecuzione del Recovery Plan. Eppure, nonostante questo decisivo appuntamento elettorale, la politica di destra e di sinistra, dalla Meloni a Salvini, da Letta al sempre più frastornato Conte, per non parlare dei mille piccoli Calenda questuanti in tv, non riesce neanche a trovare i rispettivi candidati. I guai, infatti, arriveranno tra sei mesi, se non rispetteremo la tabella di marcia per colpa della proverbiale inerzia o delle rivalità inestricabili dei quasi 8.000 campanili italiani. A Bruxelles sono sempre più numerosi gli scettici che considerano il Pnrr arrivato da Roma, anziché un piano concreto da realizzare entro il 2026, un editoriale ben confezionato dal principale collaboratore di super Mario, Francesco Giavazzi, famiglio di mille battaglie del Premier.

 

Le elezioni amministrative saranno la vera cartina di tornasole, tanto più che oggi, in tutto il mondo, i principali attori sono ormai diventate le grandi città, non più gli Stati centrali. Londra, New York, Berlino, Milano, Denver, Houston, Boston e molte altre aree metropolitane sono divenute driver di innovazione. Basti pensare ai nuovi «Studios» di Netflix, che trasformeranno una quasi sconosciuta città del New Mexico come Albuquerque, nella nuova Hollywood. Riuscirà l’Italia a mettere al centro del post pandemia le dieci principali aree geografiche del Paese, o si perderà come al solito nelle pastoie burocratiche? Oppure finirà come con il decreto «Semplificazioni», bloccato di fatto da chi dovrebbe promuoverlo, ovvero dal tiepido ministro Cingolani, in timorosa sudditanza nei confronti dell’apparato di cui è a capo?

Dal Ponte sullo Stretto ai distretti tecnologici, le aree turistiche a fiscalità ridotta per incentivare gli investimenti, i centri di cultura e le zone privilegiate per start-up innovative: questo dovrebbe essere il salto da compiere, facendo tesoro della lezione lasciataci dalla pandemia. Per queste ragioni, oggi ad amministrare le aree metropolitane servono persone che fungano da game-changers, costruiscano infrastrutture e realizzino iniziative a favore degli scambi interterritoriali e di una migliore qualità di vita. Il tutto con il supporto dello Stato centrale, che deve saper veicolare le risorse dove c’è veramente bisogno e mettere le politiche al servizio delle diverse aree territoriali. Ma non è che il premier Draghi, sempre più sconcertato dalle pruderie tra i mandarini di Stato e dal suk in Parlamento, come confessa in ogni incontro riservato, alla fine non si convinca che l’unica soluzione per dare una scossa al «sistema» e far ripartire l’Italia non sia l’arrivo della troika? Forse ci sta già pensando. «Governare gli italiani non è difficile, è inutile», diceva Giovanni Giolitti già ai primi del ‘900.
 

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