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Dl Covid, Salvini punta i piedi: "Ci vediamo tra 15 giorni"

Francesco Storace
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Il primo round se lo aggiudicano i rigoristi che odiano le partite Iva. Ma se lo votano loro. Perché in consiglio dei ministri i rappresentanti della Lega rifiutano a Mario Draghi il loro sì al decreto legge che ripropone miniriaperture e coprifuoco agli italiani e non altro un primo segnale a marcare il dissenso, e non si può dire che Matteo Salvini non lo avesse fatto sapere, come il nostro giornale aveva segnalato anche ieri. Le sinistre strepitano, siamo quasi al «così non si fa». 

 

Pretendono di tenere gli italiani ancora sottochiave – nonostante la maggior parte delle regioni siano ormai in zona gialla – e il centrodestra non dovrebbe fiatare, secondo loro. Forse può valere per i ministri di Forza Italia, ma la Lega ha mostrato compattezza a Palazzo Chigi, con Mario Draghi che non credeva a ciò che solo ieri ha cominciato a capire. I conti prima o poi si fanno.

Nulla di cruento, ha precisato agli amici Salvini, ma non può essere che non si tenga conto delle richieste della Lega e nemmeno di quelle delle Regioni oltre che delle categorie ormai esasperate. 

 

Quella di ieri è stata una delle classiche giornate dure e lunghe, fatte di tantissimi contatti telefonici tra il premier e il segretario della Lega che ha rimarcato il suo punto di vista, senza mollare sull’obiettivo. Se non c’è condivisione, non c’è consenso.

E proprio al presidente del Consiglio Salvini ha tenuto a spiegare i motivi del dissenso verso un decreto che non può essere considerato soddisfacente. Tanto più che l’intero partito leghista si è compattato attorno al suo segretario federale.

 

Draghi ne ha avuto la riprova quando ha parlato direttamente con i ministri, che gli hanno ribadito le perplessità del partito per una serie di restrizioni e divieti non sempre in linea con i dati sull’andamento dei contagi. «L’auspicio – hanno fatto sapere fonti di via Bellerio - è poter aggiornare a breve le norme grazie a un miglioramento della situazione sanitaria». 

A favore della tesi della Lega anche la posizione delle Regioni, che semmai auspicavano rigidi protocolli di sicurezza per le riaperture. Invece Draghi, spinto dall’ala dei chiusuristi, ha preferito dire di no.

Eppure, gli argomenti c’erano. Ha detto Salvini al premier: «Presidente, noi stiamo ascoltando sindaci, governatori, associazioni, imprese e lavoratori di tutta Italia. La Lega non può votare questo decreto. Al di là del coprifuoco, la zona gialla così come l’avete pensata non permette ad esempio di andare in un bar o in un ristorante al chiuso. Ora abbiamo i vaccini e per fortuna negli ultimi giorni abbiamo liberato migliaia di letti negli ospedali e centinaia nelle terapie intensive, i contagi sono in calo, più di mezza Italia ha dati da zona gialla. Abbiamo fiducia in te, ma noi lavoriamo al prossimo decreto che entro metà maggio - se i dati continueranno a essere positivi - dovrà consentire il ritorno alla vita e al lavoro per milioni di italiani». E il riferimento al «prossimo decreto» è l’impegno comune che Salvini e Draghi devono aver concordato nella lunga giornata di ieri. A quanto si è compreso entrambi vogliono rivedere insieme i dati sanitari, e prevedere tutte le altre aperture, fra 15 giorni. 

Ovviamente, c’è da aspettarsi la solita cagnara a sinistra, che nonostante l’approvazione del decreto rigorista, pretende di dettare le regole del gioco. Ci sarà un secondo round e bisognerà prendere atto di una situazione che sarà inevitabilmente nuova e migliore. E sarà difficile per Pd, Leu e Cinquestelle continuare a sostenere una linea che sta esasperando tantissimi italiani e mina per davvero la credibilità dell’azione di governo.

Il bisogno di normalità non è un’invenzione di Salvini ma un’aspirazione dei cittadini dopo oltre un anno di sacrifici. Pensare di «concedere» la possibilità di cenare al ristorante ma solo all’aperto e per di più dovendo sbrigarsi per il coprifuoco a partire dalle 22 è qualcosa che oggettivamente non sta più in piedi. Ed è il motivo per cui – per la prima volta – la Lega ha deciso di puntare i piedi. Un segnale per far intendere che non tutto è sempre dovuto. 

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