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Regioni contro il Governo, il Covid fa esplodere le contraddizioni di autonomie e potere

Riccardo Mazzoni
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La crisi sanitaria, economica e sociale determinata dal Coronavirus ha fatto esplodere tutte insieme le contraddizioni irrisolte del rapporto tra potere centrale e autonomie causate dalla riforma del Titolo V, voluta dalla sinistra e figlia dell’ubriacatura federalista di inizio secolo, che ha portato a un ventennio di contenziosi continui tra Stato e Regioni, sfociati in valanghe di ricorsi alla Corte Costituzionale. Il corposo trasferimento di competenze nella sanità ha determinato venti modelli diversi con l’unico denominatore comune dei tagli indiscriminati imposti dalle politiche restrittive dei governi nazionali. Ma se il sistema è arrivato nudo alla meta nella drammatica prova della pandemia, le responsabilità vanno comunque equamente divise: anche se il fronte sud si è distinto negativamente per gli sperperi clientelari, la medicina territoriale è stata ovunque depauperata, e oggi ne paghiamo le conseguenze. L’ultimo Dpcm, quello che ha diviso l’Italia in tre colori, è un esempio di scuola della confusione normativa, oltre che della debolezza politica del governo nazionale.

Pur nella sua complessa indeterminatezza, infatti, la pessima riforma del Titolo V un punto fermo lo mette all’articolo 117, secondo comma, lettera q, quando dice che la profilassi internazionale è di competenza esclusiva nazionale, e il Covid rientra a tutti gli effetti nella categoria dei flagelli internazionali, per cui dovrebbe essere chiaro che in questa emergenza le competenze regionali sono subordinate a quella dello Stato. Prerogativa che Conte, però, ha esercitato a fasi alterne, prima capitalizzando il consenso con l’autoritarismo dell’uomo solo al comando quando la condivisione del lockdown era quasi plebiscitaria, e poi tentando di delegare le decisioni più scomode a governatori e sindaci quando le chiusure sono diventate impopolari. Ne è scaturito un braccio di ferro che ha inevitabilmente ritardato le decisioni, tanto che fino a mercoledì sera non era ancora chiaro quali regioni fossero in procinto di diventare zona rossa, e la sensazione finale è che alcune scelte siano state suggerite più da convenienze politiche – vedi il caso della Campania - che dalle indicazioni scientifiche. Per cui il solenne proclama del premier di “non essere disposto a trattare sulla salute pubblica” è stato plasticamente smentito dai fatti degli ultimi giorni.

Dunque, una volta usciti dalla pandemia, con gli italiani in balìa di una valanga di Dpcm, decreti legge, e ordinanze regionali e comunali che spesso si contraddicevano a vicenda, andrà fatta una seria riflessione sul ritorno della sanità nel suo complesso alle competenze dello Stato, perché la babele delle competenze ha superato ogni livello di guardia e di decenza.

Ma questo non toglie che sia necessario anche ricondurre i governi nazionali, dopo la parentesi di Conte, a operare entro i limiti della Costituzione. Quanto è accaduto soprattutto con l’ultimo Dpcm è infatti inaccettabile, perché crea un precedente pericoloso, di forma e di sostanza. L’articolo 2 infatti attribuisce a un’ordinanza del ministro della Salute, sulla base di determinati parametri scientifici, il potere di collocare una regione nella cosiddetta fascia rossa, in cui vige il lockdown totale con le connesse limitazioni alla libertà personale.

Ora, la Costituzione stabilisce che ogni atto amministrativo deve trovare fondamento e forza in una legge, ma da marzo a oggi abbiamo assistito a una catena di forzature iniziata con il primo Dpcm varato senza alcun passaggio parlamentare, poi con i successivi autorizzati da decreti legge, e ora, addirittura, con le ordinanze del ministro della Salute “coperte” normativamente solo da un Dpcm del presidente del consiglio, il quale diventa così un dominus assoluto, che bypassa ogni possibile controllo: del Parlamento, del Colle e della stessa Corte Costituzionale. E questo accade proprio nei giorni in cui il Capo dello Stato sta faticosamente cercando di ripristinare la centralità delle Camere nella gestione della crisi.

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