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In arrivo la trappola Ue: così il Recovery Fund seppellirà il Made in Italy

Gianluigi Paragone
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Si accende il dibattito su cosa dovremmo finanziarie con i rubinetti del Recovery. Si parla della rete unica della fibra, cioè costruire una infrastruttura pubblica, con soldi pubblici, e poi "omaggiarla" di fatto a Tim (azienda su cui si è compiuto il peggior esercizio di privatizzazione) con la compiacenza di Cassa Depositi e Prestiti cui spetta il ruolo di bella statuina. 

Si parla poi della declinazione del new green deal, espressione che fa felici tutti e permette di candeggiare le ipocrisie di fondo di tutti, Europa in primis: il porto olandese di Rotterdam, per esempio, è il principale aggregatore di navi cargo, cioé il mostro a più teste campione mondiale di inquinamento e primo hub in Europa catalizzatore di merci contraffatte per lo più a danno del «Made in Italy». (Questo per dire come quello olandese sia tra i più ipocriti governi della Ue, paradiso fiscale a norma di legge e complice di un imbarazzante traffico di merce contraffatta e di dumping). 

In nome del nuovo corso ecologista ambientalista, dicevamo, sarebbe pronto anche un bel piano di risanamento della ex Ilva di Taranto, patata bollente nelle mani del governo Conte e della sua principale forza di riferimento, il Movimento Cinquestelle, che proprio in questo pezzo di terra pugliese raccolse gran quantità di voti al grido "Basta Ilva". 

Ora quel polo siderurgico è nelle mani di un vero e proprio padrone, un padrone straniero, il quale tiene in scacco l’esecutivo. Come uscirne dunque? Con un altro gioco di parole: una riconversione green all’insegna dell’idrogeno. Evviva!

Insomma, grazie ai soldi del Recovery (sulle cui dinamiche finanziarie ormai non si parla più perché è assodato che quei soldi non sono regalati, come la danno a intendere maliziosamente) l’Italia diventerà più digitale, più green e magari più ricca perché darà la possibilità di fantasmagoriche riconversioni, parola magica dalle parti dei Cinquestelle dove tra conversioni e riconversioni ormai hanno perso il 50 per cento dei voti presi alle politiche nemmeno tre anni fa.

Ovviamente mentre il dibattito si avvolgerà su questi temi macro nelle mani di una classe dirigente nana, il vero nerbo del Made in Italy salterà come un tappo. Perché? Semplice, perché le sofferenze e gli incagli debitori della microimpresa e delle pmi non solo si ammaloreranno progressivamente ma aumenteranno in termini di densità costringendo così il sistema bancario a pigiare il tasto "Sos". E saremo punto e a capo un’altra volta.

L’Europa di Bruxelles non vuole il rilancio delle pmi perché sa che la forza del Made in Italy è tutta lì: fin dalle sue prime battute l’Unione franco-germanica è sorta per indebolire l’Italia colpevole di avere la più grande ricchezza privata e di aver costruito il proprio miracolo imprenditoriale sulla alta qualità dei prodotti, sulla miscela di creatività e capacità manifatturiera, e sulla svalutazione monetaria. 

Il nostro successo non ce l’hanno mai perdonato: noi siamo eccellenza assoluta, nonostante tutti i nostri vizi. Per questo da Bruxelles ci propinano un indebitamento progressivo sulle cosiddette grandi sfide, cioè sulla possibilità di farci conquistare sempre più dagli stranieri. Ma i soldi e la liberazione dalla morsa debitoria quella non può avvenire. Eppure è quell’incaglio lì che fa e farà da tappo. La scelta di farlo saltare dipende solo dalla scelta politica di volerlo fare. I debiti si pagano, dicono: non mi sembra che le grandi banche o i grandi gruppi abbiano pagato i propri debiti quando sono entrate in crisi. C’è sempre stato un intervento liberatorio.

Quello che ci vuole per far ripartire il sistema economico italiano è un giubileo, un reset. Altrimenti i posti di lavoro salteranno come birilli.

 

 

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